Poco più di una settimana fa i jihadisti dell’Isis hanno lanciato una massiccia aggressione contro la città di Kobani (Ayn al-Arab) nel nord della Siria al confine turco facendo fuggire più di 140.000 persone. Kobani rappresenta un bastione strategico per il Kurdistan siriano, da sempre difeso strenuamente dal YPG, il gruppo armato curdo attivo in Siria. Dopo giorni di combattimenti la forza curda riesce ad allontanare l’Isis raggiungendo una vittoria militarmente fondamentale. Kobani rappresenta uno degli innumerevoli teatri di una guerra dove il sipario stenta a calare: i saltuari bombardamenti della coalizione comandata dagli Usa e dalla Francia, con il supporto dei paesi del Golfo, fanno solo da cornice ad un conflitto comprensibile in larga parte in chiave locale e regionale. Sullo sfondo di un imponente esodo della popolazione versola Turchia, a combattere i jihadisti sul territorio sono soprattutto i gruppi armati curdi, dal PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan) fino ad arrivare al YPG ( Unità di difesa del popolo).
Le forze in campo
“Il giorno per la gloria e l’onore è arrivato. Unitevi alla resistenza contro l’Isis”. L’appello del PKK chiama alla mobilitazione migliaia di giovani curdi tramite web: il Partito dei Lavoratori è emerso recentemente come attore principale contro lo Stato Islamico. Di forte impatto sono state le sue campagne militari nelle città di Jalawla, Makhmour ma soprattutto la lotta al fianco dei peshmerga iracheni sul Monte Sinjar nel nordovest dell’Iraq, che li ha visti mettere in salvo migliaia di yazidi, la comunità islamica maggiormente perseguitata dalla violenza jihadista in quanto “miscredenti”. Nonostante non scorra buon sangue tra le forze curde turche e quelle irachene, il PKK recentemente sembra aver alleggerito le sue posizioni verso lo stato indipendente del Kurdistan iracheno, in nome del comune obiettivo di abbattere l’estremismo sunnita.
In territorio siriano la voce grossa contro lo Stato Islamico la fa l’YPG: la milizia curda, braccio armato del PYD ( Kurdish Democratic Union Party), da due anni è schierato in prima linea con le forze antagoniste all’Isis. Il Kurdistan siriano nel decennio 1980-99 ospitava in larga parte tutte le forze del PKK mentre Damasco chiudeva un occhio: i rapporti con il regime di Hafiz al-Assad era di reciproco sospetto ma convergevano nell’ostilità verso Ankara. Una volta avvenuto il riavvicinamento tra i due paesi (non sarebbe durato) il PKK fu bandito dal regime, il suo leader Ocalan fu arrestato, condannato all’ergastolo in Turchia, e il gruppo armato fu iscritto alla lista nera del terrorismo. La sua ideologia anarco-marxista fu raccolta dal PYD, che nel 2003 nascerà dalle ceneri del PKK. Negli anni successivi l’eredità curda in Siria ha dovuto lottare su due fronti: da una parte un regime ostile come quello di Damasco, dall’altro ponendo un freno all’ascesa delle diverse brigate sunnite, le quali in un secondo momento si sono rivolte contro Bashar al-Assad dando vita ad Al-Nusra o più recentemente allo Stato Islamico.
Lo scacchiere attuale è ancor più di difficile valutazione specialmente se ricordiamo l’accordo formato il 10 settembre tra le diverse milizie siriane per reprimere l’avanzata jihadista: tra i partecipanti l’YPG e l’Esercito Libero Siriano, da sempre reciprocamente ostili. Il rafforzamento dell’asse anti-Isis vede emergere chiaramente l’unità d’intenti tra le truppe che combattevano contro Assad, quelle che Obama definisce “moderate”, e la sempre più influente galassia militare curda.
Il ruolo di Ankara
La riluttanza turca di scendere in campo rispondeva a due fattori principali: navigare a vista per permettere il rientro degli ostaggi sequestrati a Mosul dall’Isis e non alzare i toni in ragione delle elezioni presidenziali del 10 agosto. Il rilascio dei primi avvenuto a metà settembre e la vittoria di Erdogan alle urne ha lasciato più spazio di manovra ad Ankara la quale sembra pronta ad adottare una linea più interventista.
Con i curdi del PKK vige ancora il cessate il fuoco dal marzo 2013 ma i toni recentemente si sono alzati: i leader del gruppo armato accusano l’establishment turco non solo di aver finanziato precedentemente l’ascesa jihadista e di esserne quindi indirettamente artefice ma anche di aver stretto rapporti con lo Stato Islamico che hanno permesso, tra le altre cose, il rilascio degli ostaggi che a detta di Ankara non ha richiesto nessun pagamento ma solo una “fervente attività diplomatica”.
Stretta tra l’influenza della Nato, che da tempo auspica una presa di posizione turca, e un fronte interno che comincia a riscaldarsi in previsione delle elezioni nazionali nel 2015, la politica estera di Erdogan continua il suo percorso tra perdita di legittimità (il suo appoggio all’opposizione siriana non ha dato i frutti sperati) e una forte prudenza internazionale.
Più di un’attenzione merita inoltre la minoranza curda in Turchia: Demirtas è uscito con un 9,7% alle presidenziali ( a fronte di un 6,5% nelle elezioni amministrative di marzo) contribuendo a regalare alla sua politica inclusiva e libertaria maggiore consenso. Da qui al 2015 la strada è ancora lunga ma l’impressione che il suo HDP possa aspirare ad entrare in Parlamento è più che mai reale. Un altro motivo per Erdogan di procedere con cautela riguardo la questione curda.