Le elezioni amministrative di domenica 30 marzo hanno fornito importanti risposte agli interrogativi degli ultimi mesi sulla capacità di tenuta del governo turco. Proteste di massa e scandali non hanno infatti portato ad una crisi di consensi per il partito di governo, e neppure spostato voti in modo considerevole.
La situazione politica turca, così come fotografata dai risultati di queste elezioni, non appare sostanzialmente diversa da quella precedente allo scoppio del movimento di Gezi nel giungo 2013. L’AKP si è mantenuto sopra il 40% a livello nazionale, risultando ancora una volta la prima forza politica turca. Il risultato più importante sta nel fatto che Erdoğan non soltanto è riuscito a compattare la base elettorale rurale dell’Anatolia – dove ha stravinto quasi ovunque – ma soprattutto ha confermato l’egemonia del suo partito sulle due principali metropoli del paese, Istanbul e Ankara. In modo particolare la vittoria di Ankara, mantenuta per un soffio dal sindaco uscente Melih Gökçek, è risultata determinante a spezzare l’unica reale speranza dell’opposizione.
Per i kemalisti del CHP queste elezioni sono state una disfatta di proporzioni incalcolabili. Il principale partito di opposizione aveva puntato tutto su Istanbul e Ankara, presentando due candidati molto forti come Mustafa Sarıgül e Mansur Yavaş. Soprattutto quest’ultimo, proveniente dal MHP e da meno di un anno tra le fila del CHP, era da molti considerato favorito per la vittoria ad Ankara. Potenzialmente si trattava davvero di un’opportunità storica per strappare la capitale al partito di governo. La crescente impopolarità di Gökçek, sindaco di Ankara degli ultimi 20 anni, poteva essere sfruttata da un candidato in grado di mettere d’accordo gli elettori di centro-sinistra e i nazionalisti di destra. Così non è stato, e la sconfitta ottenuta per una manciata di voti risulta uno schiaffo ancora più doloroso. Il CHP, che per il resto è risultato come sempre ghettizzato nelle sue roccaforti dell’Egeo e della Tracia, denuncia brogli ad Ankara e annuncia che farà ricorso. Sarebbe forse molto più salutare riflettere sulle ragioni di una simile catastrofe elettorale.
Discorsi in parte diversi possono essere fatti per i partiti minori. L’estrema destra, rappresentata dagli ultranazionalisti del MHP, ha ottenuto un grande risultato. Quasi il 18% di consensi a livello nazionale e vittoria in otto province, di cui tre strappate alle precedenti amministrazioni rivali. La sinistra curda del BDP si è confermata egemone nelle regioni curde, mentre il “partito gemello” HDP, che avrebbe dovuto rappresentare la sinistra radicale in tutta la Turchia, ha ottenuto risultati estremamente deludenti, rivelandosi in tal modo un esperimento fallito. Infine i movimenti fondamentalisti – tra cui spiccano il SP, erede dell’ala più radicale del Refah Partisi, e l’Hüda-Par legato ad Hizbullah – hanno racimolato percentuali molto modeste, dimostrandosi sostanzialmente ininfluenti sia a livello nazionale che a livello locale.
Le feroci polemiche che hanno seguito il voto, legate soprattutto ai dati estremamente diversi proposti dalle prime proiezioni delle agenzie filo-governative rispetto a quelle legate al movimento Hizmet di Gülen, dimostrano come la situazione in Turchia non sia destinata a ridimensionarsi nell’immediato. Lo stesso Erdoğan, durante il discorso per celebrare la vittoria elettorale, ha promesso di farla pagare cara ai non meglio precisati “traditori” che hanno tramato alle sue spalle. Chiaramente non si tratta di un sistema atto a calmare la tensione interna al paese. È probabile che il premier turco, soprattutto in vista delle elezioni presidenziali di questa estate, si troverà ad affrontare altre difficoltà simili a quelle a cui abbiamo assistito in questi mesi. Ma ora è chiaro che in questa lotta ha il popolo dalla sua parte.