Giugno 1991. È guerra. Non è più tempo per invocazioni all’unità e al ritorno ad un sentire comune: la Jugoslavia è sotto assedio, interno ed esterno. E, ormai, la Jugoslavia è la Serbia.
Il campionato nazionale jugoslavo viene sospeso, la Rivista della Stella Rossa commenta così la vicenda: “Il campionato nazionale calcistico non è iniziato come previsto la prima settimana d’agosto. In Croazia, sotto la politica ustascia dell’HDZ di Tudjman, si giocano crudeli giochi di guerra, nei quali muore la popolazione serba. Muore proprio in quanto serba.” E se i croati sono fascisti, la comunità internazionale non è certo da meno: sempre in agosto, la UEFA sospende tutte le partite europee su suolo jugoslavo. A leggere i quotidiani serbi, le ragioni sono evidenti: la UEFA è una lobby tedesca, e i tedeschi odiano da sempre i serbi. Le grandi potenze occidentali, come Francia, Germania, Inghilterra, non possono tollerare che la Jugoslavia primeggi negli sport di squadra, e per questo le precludono di partecipare. È fatta: il mondo odia la Serbia. Questa constatazione assurgerà presto a verbo, verrà fatta propria dall’opinione pubblica e diverrà pilastro della politica estera serba nel decennio che si apre.
Frattanto, gli odi che frappongono le tifoserie del Partizan e della Stella Rossa non cessano di esistere. C’è però una novità, le due squadre, prima che avversarie, si riconoscono in quanto serbe, e questa valenza etnica assume un peso predominante e soprattutto prioritario: le due squadre non rappresentano più il calcio serbo, ma la Serbia stessa. Tifare Stella Rossa nelle competizioni internazionali diventa un’esigenza patriottica, un richiamo morale all’unità dei serbi a cui nessuno può sottrarsi: un gol della Stella Rossa è più di una vittoria calcistica, è una vittoria della serbitudine. Su Naše riječi (“Nostre parole”), giornale dei serbi in Croazia, si legge: “La Stella Rossa è più di un simbolo calcistico, è un simbolo dell’essere serbi.”
Sul finire del 1990, nella Rivista della Stella Rossa viene citato per la prima volta un uomo nuovo che pare essere riuscito a ricomporre lunghi attriti interni alle diverse fazioni delle Delije, i tifosi della Crvena Zvezda. Il suo nome è Zeljko Raznatovic – detto ‘Arkan’. Mentre si spendono parole d’oro per Raznatovic, che ha saputo – a detta dei giornalisti della Stella Rossa – “civilizzare” le tifoserie, placare gli animi, sedare rigurgiti di stampo cetnico, sappiamo dalle stesse dichiarazioni di Raznatovic che già dall’estate del 1990 egli stava formando milizie paramilitari da impiegare nella guerra imminente: il 13 maggio c’era stata una partita incandescente tra Dinamo e Stella Rossa, “noi ci siamo organizzati immediatamente dopo… Io ho previsto la guerra grazie a quella partita a Zagabria, ho previsto tutto e sapevo che la lama ustascia avrebbe di nuovo sgozzato bambini e donne serbe”, ricorda Arkan in un’intervista di anni più tardi.
È la fondazione della Guardia volontaria serba (Srpska dobrovoljačka garda), che dal 1991 prenderà parte attiva nel conflitto in Slavonia e nell’assedio di Vukovar, occasione per le Tigri di Arkan di guadagnarsi la fama di soldati preparati e pericolosi. Gli stessi che fino a mesi prima, capelli più lunghi e mancanza di disciplina, saltavano per gli stadi incitando la Stella Rossa e inneggiando alla serbitudine: “Le delije hanno lasciato gli arnesi del mestiere da qualche parte sotto gli spalti del Maracanà e col fucile in mano sono partiti per la guerra. Indomiti guerrieri, un eroe dietro l’altro” (Rivista della Stella Rossa, marzo 1992).
Scrive Ivan Čolović, etnologo e antropologo politico: la partecipazione in guerra delle ‘Delije’ dimostra come in un paese in cui il tifo uligano, come in molti altri, era insistentemente presente, in tempi di guerra l’aggressività dei tifosi diventa per lo stato un prezioso “capitale d’odio”, ed i tifosi benvoluta “carne da cannone”. Lo stato ora non ha bisogno di contrastare l’atteggiamento violento dei tifosi, anche perché in tempo di guerra esso ha poche opportunità di manifestarsi nella maniera consueta. Al contrario, lo stato è interessato a preservare tale “capitale d’odio”, per utilizzarlo nel raggiungimento degli obiettivi di guerra.
Sebbene possa apparire inverosimile che bande di violenti, indisciplinati, provocatori di caos e disordine, ubriaconi e drogati possano venire in breve tempo tramutati in squadre di militari professionisti, ligi ai doveri, pronti ad ubbidire ai superiori e rispettare gli impegni presi, non bisogna dimenticare che in realtà le formazioni uligane, nel loro disordine, seguono gerarchie e codici di comportamento rigidi e stabiliti. Ma poi, quando si tratta di distruggere centri abitati, bombardare città, rapinare, uccidere e stuprare, qual è il livello di disciplina richiesto?
Un commento
Pingback: SERBIA: Accusata di corruzione. La vedova di Arkan e il business « EaST Journal