Nel marzo 2011 si sono svolte in Siria le prime pubbliche manifestazioni di protesta contro il regime di Bashar al-Assad.
L’attuale Presidente siriano, con studi e ambizioni da oculista, per un incidente automobilistico in cui ha perso la vita il fratello maggiore Bassel, si è trovato al potere, raccogliendo l’eredità del padre Hafiz al-Asad, che dal 1971 al 2000, anno della sua morte, ha governato il paese con potere autoritario.
Le proteste popolari, così come per altri paesi coinvolti nella “primavera araba”, avevano inizialmente l’obiettivo di spingere al-Assad ad attuare riforme che dessero un’ impronta democratica al suo governo autocratico.
Le manifestazioni furono affrontate con pugno duro, ma da una dimensione locale passarono rapidamente a una dimensione nazionale fino a sfociare, nel 2012, nella cruenta guerra civile tuttora in corso, con le tragiche conseguenze che ben conosciamo: centinaia di migliaia di morti, milioni di profughi fuggiti in Turchia, Libano, Giordania e nel Kurdistan iracheno.
Migliaia di siriani, disperati, costretti a sfidare la sorte imbarcandosi, in compagnia di altri immigrati provenienti da dure realtà nei loro paesi, nei “viaggi della morte” che attraverso il Mediterraneo, giungono nel nostro paese. Nella speranza, spesso vana, di una vita migliore in Europa.
Le recenti, tragiche notizie provenienti da Lampedusa lo testimoniano.
Un disastro umanitario di proporzioni bibliche.
La posizione geografica della Siria non ha certamente aiutato. Troppi interessi in ballo, troppo strategica la posizione del paese nel complesso scacchiere medio-orientale.
Al-Assad, i ribelli dell’esercito siriano libero (ESL), la miriade di milizie islamiche integraliste che combattono sotto il nome di “ribelli”, Obama, Putin, le nazioni europee, l’Onu, Israele, gli Hezbollah libanesi, l’Iran sono stati protagonisti, nel corso del conflitto, di stucchevoli balletti di scarico di responsabilità. Si sono impegnati a perorare le loro cause, giustificare le loro azioni o non azioni.
Ci hanno raccontato, in sostanza, le solite balle. Per coprire i consueti, reali motivi del conflitto in terra siriana, che sono poi quelli di ogni conflitto: interessi economici e geo-politici.
Importanti e intricate questioni politiche, strategiche e militari sono state dibattute sui media in questi ultimi mesi: è giusto intervenire nella guerra siriana come, fino a un mese fa sembravano intenzionate a fare USA e Francia, anche senza l’avallo dell’ONU? Chi ha usato le armi chimiche? Il regime? Gli stessi ribelli facendo ricadere l’accusa su al-Assad per coinvolgere le potenze occidentali nella guerra? Entrambi?
Quali conseguenze avrebbe la vittoria dell’uno o dell’altro schieramento? Chi sono realmente i ribelli? Quale intricata galassia, quali diversi interessi e istanze si celano dietro questa parola?
Quali ripercussioni in Libano, Israele, Iran, Turchia, in tutto il medio-oriente? Come cambierebbero i già difficili rapporti diplomatici tra USA-Russia e gli equilibri geo-politici mondiali?
Questioni, ovviamente, a cui sono molto interessato.
Non fosse che altre domande, semplici e personali, si arrovellano in maniera ancor più pressante nella mia mente: che fine hanno fatto le persone incontrate in Siria? Sono ancora in vita le persone che sorridevano davanti al mio obiettivo? Quale è la sorte della gente che faceva a gara per offrirmi ospitalità e con cui ho passato ore ed ore a parlare davanti a un tè?
Un amico di Aleppo, Yousef, riesce ogni tanto a darmi notizie da quella martoriata terra, per la verità sempre peggiori, ma almeno so che lui è vivo. Ma gli altri? Le centinaia di persone incontrate durante il mio viaggio? Che ne è stato di loro?
Nel dicembre 2010, pochi mesi prima dell’inizio dell’escalation di tragici eventi che hanno portato alla guerra, ho visitato la Siria: un paese ricco di storia, arte, cultura e bellezze naturali.
Il meraviglioso sito archeologico di Palmira, le rovine greco-romane di Apamea. Gli antichi caravanserragli, il suq di Aleppo, con i suoi colori, i profumi di spezie, il via vai dei carretti, i banchi stipati di merce, tra cui il celebre sapone. Le splendide moschee, gli storici hamam. L’affascinante città vecchia di Damasco, con le sue strette vie, il cafè Al-Nawfara, dove Abu Shady, l’ultimo hakawati (cantastorie professionista) siriano, seduto sul suo trono, ricrea atmosfere da “Mille e una notte”. Le “norie”, le gigantesche ruote idrauliche, simbolo della città di Hama, con il loro caratteristico cigolio, il “canto”che ammaliava i visitatori.
Il popolo siriano, ospitale e caloroso.
Questa era la Siria alla fine del 2010, quella dei miei ricordi.
I ricordi di un viaggiatore un po’ ficcanaso, interessato a godere delle meraviglie del viaggio ma allo stesso tempo, trovandomi in un paese sottoposto a un regime, curioso di capire cosa si celasse dietro l’apparente tranquillità dello scorrere della vita quotidiana. In altri paesi mediorientali da me visitati quali Iran, Libano, Giordania e la Turchia, prima delle rivolte di Gezi Park, avevo “percepito”, nell’aria o parlando con i locali, una certa tensione. Avevo ascoltato critiche esplicite o velate da parte di alcune persone nei confronti delle élite politiche o dei loro leader. In Siria molto meno. Probabilmente per paura della polizia segreta del regime, raramente le persone toccavano argomenti riguardanti questioni politiche.
Non ho percepito una particolare tensione latente nel paese, pronta ad esplodere, come mi era capitato altrove.
Devo ammettere di esser rimasto spiazzato. Mai avrei pensato che, a distanza di pochi mesi dalla mia visita, scoppiasse nel paese una guerra di tali proporzioni.
Me li tengo stretti, questi bei ricordi, perché buona parte di ciò che ho visto oggi non esiste più.
Memorie risvegliate d’improvviso due mesi fa, su un treno che mi riportava a Torino dopo un week end in Liguria.
Ero immerso nella piacevole lettura di “In viaggio con Erodoto”, un libro di Ryszard Kapuscinski, quando la voce squillante di una distinta signora richiamò la mia attenzione: “ che mi diano pure della razzista, non mi interessa! Son solo contenta quando queste cavolo di navi di profughi affondano! Non se ne può più di “quelli là” che vengono da paesi dell’Africa e del Medio Oriente solo per delinquere a casa nostra! Mica noi italiani, ai primi del ‘900, siamo andati in America per delinquere e rubare!”
Non c’è che dire, proprio una profonda e illuminata disamina storica, da far rivoltare nella tomba il mio amato Ryszard, pensai.
“Ben detto signora, parole sante! Non se ne può proprio più!” La pronta risposta di una ragazza sui venticinque con fidanzato al seguito! L’impeccabile, attenta, analisi storica della distinta signora aveva avuto, con mio sommo stupore, un gran successo tra i presenti. Un tripudio di assensi. Tutti d’accordo. Tutti tranne il fidanzato della sua principale fan, la ragazza sui venticinque. Lui era muto, non aveva un’opinione. Se ne fregava, giocava con lo smartphone…
Nel corso dell’interessante dibattito, in fondo al vagone quattro “intellettuali”, miei connazionali, a torso nudo, con sigarette fumanti e bottiglia di rum in mano trovavano molto divertente fare il verso a un ragazzo di colore presente sul treno: “pssssss…palline di coca….psssssss palline di coca”!
Un quadro decisamente poco edificante, di fronte al quale mi son sentito frustrato, impotente.
Un chiaro sintomo, a mio parere, di come la nostra non sia solamente una grave crisi economica, ma anche una pesante crisi culturale.
I miei pensieri son tornati alle persone incontrate in Siria, alla loro ospitalità, gentilezza, ai racconti davanti a un tè fumante, al loro “You are welcome to Siria”, un caldo e sincero benvenuto sentito centinaia di volte, che mi ha accompagnato per tutto il periodo trascorso nella loro terra.
Avevo conosciuto nel corso del mio viaggio, “quelli là” . Ero ora circondato da “questi qua”, miei connazionali. D’accordo, un piccolo campione di miei connazionali, ma francamente, nella mia testa, un paragone imbarazzante.
L’episodio avvenuto in treno mi ha fatto riflettere, così come il silenzio sui nostri media riguardo alla guerra siriana nelle ultime settimane.
Un silenzio trasversale, al di sopra delle linee editoriali e del colore politico delle testate giornalistiche dei quotidiani o dei telegiornali.
Che fine ha fatto la guerra in Siria? Me lo sto chiedendo da circa un mese a questa parte!
Fino a un mese fa, ogni santo giorno notizie su notizie, analisi, dibattiti. Poi il nulla, o poco più.
Una sparizione quasi totale dai Tg, pochi articoli sui quotidiani.
Si sa, la moda è così. E noi siamo il paese della moda. Alcune guerre vanno di moda, poi passano di moda. Altre di moda non lo sono mai state, soprattutto quelle scomode o quelle lontane, in cui noi non siamo coinvolti. Un po’ come avviene per i dittatori: ignorati, sopportati perché utili, considerati “amici”, per poi tornare improvvisamente ad esser dipinti come terribili mostri. Loro, sempre gli stessi farabutti. L’immagine che i media ne danno e la conseguente percezione che la gente ha di loro, è ben diversa, a seconda delle convenienze storiche-politiche.
La guerra siriana pare sia passata un po’ di moda dal momento in cui “abbiamo” deciso che no, non si poteva/doveva o era più opportuno non intervenire.
E’ forse finito il conflitto? La gente non muore più da quelle parte? Non esistono più milioni di profughi disperati?
Il mio amico Yousef potrebbe essersi dimenticato di avvertirmi che tutto è tornato tranquillo a casa sua, il conflitto è cessato, la vita ricomincia e quando esce di casa non deve più schivare le pallottole dei cecchini appostati sui tetti?!
Ne dubito, Yousef me lo avrebbe comunicato con gioia, ne sono sicuro. Non ho avuto molto tempo per conoscerlo, non tanto quanto ne ho avuto per conoscere e “studiare” i media. L’istinto mi porta, chissà perché, a ritenere più affidabile l’amico siriano.
E allora, da bastiancontrario quale sono, la mia piccola, personale storia sulla Siria la pubblico in questo momento, nel bel mezzo di questo silenzio assordante.
La pubblico senza la pretesa di cambiare la testa di nessuno, né di spendere preziose energie nervose per inutili dibattiti o muri contro muri con gente che gioisce quando le navi di “quelli là”, affondano.
La pubblico con il solo intento di far conoscere con qualche foto chi sono queste temibili persone che mi hanno offerto tè, mi hanno ospitato nelle loro case e hanno sorriso davanti alla mia reflex. Persone che oggi si “permettono” di venire nel mio di paese, dopo aver perso tutto, scappando dalla guerra e rischiando la vita su bagnarole, per “delinquere e rubare a casa nostra”.
Francamente, cara distinta signora, non credo che i Siriani siano capaci di rubarci il lavoro: la criminalità organizzata nostrana può dormire sonni tranquilli.
Mica come “noi italiani”, quando siamo andati in America.
La “profonda e attenta” analisi storica, a chiosa dell’articolo, mi garantirà grandi consensi, ne sono sicuro.
L’ho imparato in un importante viaggio, in treno, tra Finale Ligure e Torino.
Ecco a voi i “sorrisi prima della guerra”: qui il reportage fotografico
Se con Arafat c’era un consistente gruppo di rappresentanza laica, Bashar perlomeno sarebbe rimasto un campo di forza utile a garantire il tempo per una transizione non brusca?
Perchè i sudditi hanno avuto fretta? Conosco pochissimo e non ho idea se non ci sia stata interessante calma ma dalla tua sommaria” descrizione coltivano un basilare senso culturale che se si parte dall’ospitalità è già metà dell’opera….
Certo che, a come immagino, la nostra nazione… ha ricavato benessere dalla loro….ma perchè nonostante il razzismo…qui abbiamo fatto più strada se solo pensassi ai differenti movimenti dal basso che tutto sommato anche negli usa condividono?
Vorrei spiegato un pò, com’è che la civilizzazione di Siria non si è messa in condizione di esprimere il vero suo valore nell’ambito del suo retroterra-entroterra/bagaglio-del-vissuto-profondo….
Grazie del Tuo buon lavoro e articolo/rapportage…