Trentacinque anni fa moriva Tito. La lunga agonia ed i suoi funerali avvennero in un clima emotivo intensissimo, lasciando in una sensazione di orfanaggio collettivo tutto un Paese a cui veniva a mancare il “padre”, l’anziano (lo stari), figura simbolica importantissima per una cultura rurale ancora profondamente patriarcale. La sua morte accelerò la conclusione di quel “secolo breve” (Hobsbawm) che fu il Novecento e l’Europa non fu più la stessa.
“Compagno Tito noi te lo giuriamo: dal tuo cammino mai non devieremo”: queste parole mille volte cantate non esorcizzarono però la decostruzione del mito ed il caos successivo ed ancora oggi la sua figura oscilla tra il disprezzo e l’agiografia, tra chi ne sottolinea i vizi dittatoriali (come fa l’attuale neopresidente croata Grabar-Kitarovic) e chi ne enfatizza virtù e meriti. Di sicuro Tito è il motore della jugonostalgija, che celebra i suoi periodici raduni alla Casa dei fiori di Belgrado ed alla sua casa natale di Kumrovec, mentre i lussi faraonici del presidente (come la grandeur di Brioni) sono rielaborati come l’incarnazione del riscatto di un paese sempre bistrattato dalle grandi potenze e dalla grande storia.
Eppure oggi i tempi si fanno maturi perché si possa procedere ad una rilettura di questa complessa figura che ha segnato profondamente la storia balcanica. Vanno esplorate con scientificità storiografica la sua tecnologia del potere ma anche l’originale imprinting che diede alla costruzione della seconda Jugoslavia. Senza sottacere la grande fragilità di tutto l’impianto statuale e ideologico titoista che si svelò subito dopo la sua morte. Il lavoro dello storico sloveno Joze Pirjevec appena uscito per i tipi di Einaudi – Tito e i suoi compagni – in 600 pagine ricche di fonti bibliografiche va esattamente in questa direzione e riesce ad illuminare molti aspetti non solo della biografia del Maresciallo, ma anche del Novecento balcanico.
La Jugoslavia di Tito è senz’altro una realizzazione unica ed irripetibile, che nasce dagli eventi della seconda guerra mondiale e dalla nuova geopolitica dei blocchi. Ma è anche una realizzazione nettamente jugoslavista, socialista e titoista al tempo stesso, che rompe schemi e dicotomie politiche allora predominanti. Contro Stalin, Tito rivendica una via nazionale ed autonoma al socialismo, contro il modello della rigida pianificazione sovietica inventa l’autogestione operaia, contro le spaccature della guerra fredda lancia il movimento dei non allineati, contro la franosa fragilità della convivenza intra-jugoslava produce l’ideologia della “fratellanza e unità”, contro le spinte centrifughe sforna l’arzigogolata Costituzione del 1974 ed eleva nel 1968 i Musulmani di Bosnia a nazionalità. E tutto l’intenso processo di modernizzazione del paese dal 1945 al 1991 (come ben documentato oggi dal lavoro di scavo del museo di storia jugoslava di Belgrado) passa attraverso queste originali coordinate politiche ed ideologiche.
Tuttavia il titoismo non è riuscito a sopravvivere a Tito e la Jugoslavia non è riuscita a sopravvivere a sé stessa, come sappiamo. Tito, accettando di fatto la vanità della presidenza a vita nel 1963, bloccò l’evoluzione del sistema di governo assumendo posizioni sempre più di conservazione dello status quo ed eliminando ogni voce difforme (come quella, da sinistra, di Praxis). Gli ultimi anni di vita furono amari non solo per i malanni dell’invecchiamento e la solitudine, ma anche per le difficoltà economiche e politiche in cui stava entrando il paese, tra l’altro in una congiuntura internazionale tesissima. Di tutto ciò Tito ebbe chiara la percezione della gravità. Alla fine del 1971, racconta Pirjevec nel suo libro, Tito disse a dei suoi collaboratori: “Se voi sapeste come vedo il futuro della Jugoslavia, rimarreste inorriditi”. Fu profetico: esattamente vent’anni dopo, si manifestò nella distruzione di Vukovar tutto l’orrore dello sfacelo della Jugoslavia. Della “sua” Jugoslavia.
Joze Pirjevec
Tito e i suoi compagni
2015
Einaudi Storia
pp. XIV – 626
€ 42,00
ISBN 9788806211578
Zoran Djindjic lo ha smontato più di 20 anni fa, e ancora si parla di Tito come di un messia.
La SFRJ era un’ abominio sotto certi punti di vista.