Lo spauracchio del terrorismo nei Balcani

di Janusz Bugajski (trad. Gianluca Samà)

Il recente attacco da parte di un uomo armato alla stazione di polizia di Zvornik, in Bosnia-Erzegovina, e uno scontro fra uomini armati e polizia a Kumanovo, in Macedonia, hanno innalzato il livello d’allerta nei confronti del radicalismo religioso e del terrorismo nei Balcani. I sanguinosi incidenti hanno dato nuova linfa alle teorie che vedono nella jihad bosniaca, nell’ISIS e nella Grande Albania le parti di un’unica grande cospirazione.

Sin dagli attacchi dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti, gli islamofobi e i manipolatori dell’opinione pubblica sostengono la tesi dell’esistenza di una rete estesa e coordinata di fondamentalisti islamici presente nei Balcani. Oltre che per a fomentare le masse, queste idee possono giustificare azioni volte a dividere la Bosnia-Erzegovina, ribaltare l’indipendenza del Kosovo o aumentare la repressione sui fedeli musulmani.

Sono numerosi i rumors riguardanti la presenza di Bosnia-Erzegovina, Sangiaccato, Kosovo, Albania e Macedonia nelle mappe del califfato e sul numero, drammaticamente crescente, di reclutamenti di musulmani effettuati dall’ISIS. La realtà è meno sensazionale; gli schemi del Califfato includono anche la Penisola Iberica e altri territori controllati un tempo da imperi musulmani. L’ISIS ha inoltre attratto molti più volontari dai Paesi dell’Europa occidentale rispetto ai Balcani, con Francia, Germania, Belgio e Regno Unito come maggiori contributori, secondo le fonti dell’intelligence

In base ad alcune stime, sarebbero attive nei Balcani circa venti cellule terroriste. Ma una “cellula” può semplicemente essere costituita da una o più persone. Le società aperte, a differenza degli Stati di polizia, sono storicamente più vulnerabili agli attacchi terroristici. Basta una persona con un’arma e un ideale per uccidere civili innocenti, cosa di cui l’Europa occidentale è periodicamente stata testimone

Per considerare gli avvenimenti recenti in prospettiva, bisogna ricordare che ci sono stati tre piccoli attacchi di matrice terrorista in Bosnia-Erzegovina negli ultimi cinque anni, che hanno causato la morte di due ufficiali di polizia e un terrorista, e il ferimento di una dozzina di poliziotti. Il fatto che possano esistere poche migliaia di wahhabiti e salafiti ortodossi nel Paese non implica che tutti siano terroristi, anzi. Sebbene alcuni fondamentalisti possono avere l’ambizione di aizzare il conflitto religioso ed etnico per trasformare la Bosnia-Erzegovina in uno stato islamico, le loro capacità sono limitate.

L’attacco a Zvornik può essere stata una vendetta a lungo rimandata nei confronti delle forze di sicurezza dell’entità a maggioranza serba della Bosnia-Erzegovina, la Republika Srpska (RS), da parte di una persona il cui padre fu da questi assassinato nel 1992. Le “vendette” sono una tradizione del Balcani, ma la vera sorpresa è che, nonostante la brutale guerra contro i civili da parte dei paramilitari legati a Slobodan Milosevic, le faide sono estremamente rare. Nonostante ciò i leader della Republika Srpska useranno l’incidente per richiedere un servizio di sicurezza e di intelligence separato, rivendicando l’insufficiente protezione da parte di Sarajevo.

Le dichiarazioni che descrivono l’attacco di Zvornik come un rischio per la stabilità dell’intera regione sono controproducenti. Fanno il gioco dei terroristi che possono così reclamare la riuscita del piano e incoraggiare altre altri ad emularli. Di più, rinforzano la voce di coloro i quali, in sede UE, affermano che i Paesi balcanici non sono pronti per entrare in Europa e incoraggiano forze separatiste a utilizzare la militanza religiosa per scopi politici.

Lo spauracchio del terrorismo bosniaco e albanese riaffiora periodicamente nella stampa occidentale. Per alcuni commentatori con scarsa conoscenze dei Balcani è difficile accettare che una popolazione a maggioranza musulmana possa avere un proprio Stato in Europa. La stampa sensazionalistica confonde l’identità musulmana con il radicalismo politico e il fondamentalismo con il terrorismo indiscriminato, ignorando il fatto che vari Paesi a maggioranza musulmana, così come le controparti cristiane, sono paesi laici e filo-occidentali.

La teoria più improbabile sostiene che il progetto di una Grande Albania islamica è in fase di sviluppo tra Albania, Kosovo e Macedonia. Alcuni policymaker sembrano genuinamente preoccupati del fascino crescente che il jihadismo ha tra gli albanesi, e che a lungo termine esso possa rappresentare un pericolo per la sicurezza dei Balcani. Le recenti violenze a Kumanovo sembrano confermare le loro paure.

Giova ricordare, comunque, che gli albanesi hanno una forte tradizione di tolleranza religiosa. L’Islam, la Chiesa ortodossa e quella cattolica hanno convissuto nella società albanese per generazioni, e non sono il punto fermo dell’identità nazionale. Al contempo è ampiamente noto il filo-americanismo albanese, giacché agli USA viene attribuito l’aver sostenuto la creazione di due Stati albanesi negli ultimi cento anni.

In base alla loro storia recente gli albanesi sarebbero pertanto l’ultimo popolo in Europa a passare dalla parte del jihadismo antioccidentale. Nonostante ciò, circa 300 combattenti albanesi provenienti dal Kosovo, Macedonia e Albania si sono congiunti a un gruppo collegato all’ISIS, e alcuni reclutatori e militanti, noti alle forze dell’ordine, sono stati arrestati. Ma pochi individui fuorviati e indottrinati non rappresentano la maggioranza della popolazione.

Aree di dogmatismo islamista sono più visibili tra gli albanesi di Macedonia, dove i “missionari” provenienti dall’Arabia Saudita sono stati attivi, predicando una dottrina conservatrice dell’Islam. I militanti si sono fatti strada nei settori più poveri della società attraverso azioni umanitarie ed educative nei settori più poveri della società. Ciò dovrà essere monitorato con attenzione, dal momento che può costituire un pericolo per le tradizioni islamiche moderate e la tolleranza fra le varie confessioni religiose.

A ogni modo gli incidenti armati in Macedonia presentano pochi punti di contatto con l’Islam, dal momento che la “guerriglia” albanese ha una tradizione secolare. Le speculazioni sui motivi, gli organizzatori e beneficiari degli incidenti di Kumanovo si stanno diffondendo nel Paese, e alcuni accusano il primo ministro di provare a distrarre l’attenzione delle proteste pubbliche levatesi contro lo scandalo delle supposte intercettazioni telefoniche del governo e altri abusi. Allo stesso modo l’attacco potrebbe essere una manovra di organizzazioni criminali o di militanti genuinamente nazionalisti.

Le tensioni etniche, sopite in Macedonia, possono essere alimentate da gruppi radicali nella speranza che vengano intensificati i controlli della polizia. Nel bel mezzo della crisi politica, con l’integrazione nella NATO e nell’UE bloccata dal veto greco per la disputa sul nome del Paese, la Macedonia può dimostrare come questa insoddisfazione sopita possa essere sfruttata per aumentare le differenze etniche e religiose, e, di conseguenza, il numero di reclutamenti di militanti per la causa.

A ogni modo, la pretesa che esista un piano che coinvolga un’estesa rete di terroristi collegati con la jihad islamica in Bosnia-Erzegovina e Siria si aggiunge semplicemente alla lunga lista di teorie del complotto nei Balcani. Affermazioni come quella del ministro degli esteri russo, Sergej Lavrov, in visita a Belgrado il 15 maggio, in base alle quali la regione si trova a fronteggiare la minaccia dell’estremismo islamico, indicano quale sia la parte più interessata alla crescita del senso di insicurezza, per trarre vantaggio da un eventuale conflitto.

Pubblicato originariamente in lingua inglese da CEPA il 18 maggio 2015

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