Il braccio di ferro tra Tsipras e l’Unione Europea è una partita a scacchi che va ben oltre i confini della Grecia. A ben vedere, in gioco non c’è soltanto il salvataggio dell’economia ellenica ma anche la sopravvivenza dell’eurozona. Ecco perché l’allargamento dell’area euro oltre l’ex cortina di ferro è una sfida cruciale. Al momento la moneta unica è adottata da 19 Stati membri, e gli ultimi arrivati provengono proprio da est: Slovenia (2007), Slovacchia (2009) e le tre repubbliche baltiche (2011, 2014, 2015). Più incerto il futuro dei “grandi”. Bulgaria, Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca hanno preso tempo. L’unico Paese ad aver fissato una possibile data di adesione è stato la Romania, scegliendo il 2019.
L’Europa centrale nell’euro: un programma per i prossimi cinque anni?
Eppure, proprio la Repubblica Ceca potrebbe diventare l’ago della bilancia in questa complessa vicenda. Il primo ministro, Bohuslav Sobotka, ha infatti dichiarato che la moneta unica garantirebbe maggiore stabilità, ed ha ipotizzato il 2020 come possibile data di adesione all’eurozona. Un fatto importante, specie se si considera che fino a poco tempo fa i cechi erano forse i più euro-scettici dell’intero blocco centro-orientale. L’elezione alla presidenza di Milos Zeman e la cosiddetta “svolta a sinistra” hanno provocato un cambio radicale, anche se la maggioranza della popolazione è ancora ostile all’euro e teme possibili contraccolpi provocati dall’inflazione.
Un timore condiviso anche dai polacchi, vera locomotiva economica dell’area. La Polonia rappresenta la terza economia tra i paesi UE non-euro, preceduta solo da Regno Unito e Svezia. Un nuovo corso costruito puntando su scuola, cultura e sfruttamento dei fondi europei, che tra il 2007 e il 2013 hanno raggiunto i 100 miliardi di euro. Il 2015 sarà un anno cruciale. Il presidente, Bronislaw Komorowski, ha infatti rimandato la questione a dopo le elezioni della prossima primavera-autunno, quando i polacchi saranno chiamati a scegliere il nuovo capo dello Stato e al rinnovo della Sejm, il parlamento nazionale. In un sondaggio dello scorso ottobre la maggioranza dei polacchi si era espressa contro l’adozione dell’euro (76%). In molti infatti ritengono che la crescita impetuosa degli ultimi anni sia stata provocata proprio dallo “scudo protettivo” della valuta locale. La questione rimane ancora aperta, anche perché per entrare nell’eurozona bisognerebbe modificare la costituzione oltre che ottenere una maggioranza dei due terzi in parlamento. Paradossalmente, la questione ucraina e le frizioni con la Russia potrebbero però fingere da acceleratore: l’entrata nell’euro metterebbe al riparo i polacchi da eventuali minacce esterne.
La Romania ha scelto il 2019 come data d’adozione della moneta unica, ma a Bucarest sono alle prese con uno sviluppo economico contraddittorio. Da un lato infatti si registra una crescita del Pil del 2,9% nel 2015, cui fa da contraltare un calo degli investimenti nel settore privato. Senza contare la piaga corruzione, che ha portato alle dimissioni del ministro delle Finanze, Darius Valcov, coinvolto in uno scandalo che risalirebbe agli anni 2010-2013, quando ricopriva la carica di sindaco di Slatina.
Ancora più ingarbugliata la situazione della Bulgaria, uno dei Paesi più poveri dell’UE, e ancora in preda a debolezze di tipo strutturale. Anche qui predominano corruzione e crimine organizzato. Non meno gravi la crisi finanziaria e il bank run che ha coinvolto un importante istituto di credito bulgaro come la Corpbank. Nonostante le dichiarazioni ottimistiche del ministro delle Finanze, Vladislav Goranov, l’euro sembra ancora una tappa lontana.
In questo complesso panorama non può mancare anche l’Ungheria. Il partito di governo, Fidesz, ha più volte rimarcato le sue posizioni euroscettiche, anche se in politica estera sembra giocare su più tavoli. Da un lato strizza l’occhio a Putin, dall’altro non può fare a meno dell’Unione Europea, visto l’aumento delle esportazioni, soprattutto verso la Germania. Il dibattito sull’euro è forte ma in casa Fidesz si preferisce rimanere cauti guardando al 2020, e solo a patto di evitare un innalzamento dei prezzi.
I beati dell’euro: i paesi baltici e la crescita economica
Tutt’altra storia nelle repubbliche baltiche, caratterizzate da un grande sviluppo economico. Eccezionale soprattutto il caso della Lituania, che dal gennaio di quest’anno ha adottato la moneta unica, preceduta dell’Estonia nel 2011 e dalla Lettonia nel 2014. Una scelta frutto di un grande progresso economico e di riforme strutturali imponenti: il PIL del Paese è infatti cresciuto del 3,4% nel 2013, e del 2,7 lo scorso anno, mentre per il 2015 si prevede un +3,1%. In vent’anni il PIL pro capite è passato dal 35% al 78% della media EU nel 2015. Un risultato impressionante, anche considerando il fatto che nel 2006 la Lituania era stata l’unico Paese bocciato, a causa degli eccessivi tassi di inflazione. Ma l’ingresso nell’euro delle repubbliche baltiche è anche una scelta di carattere simbolico, essendo situate tra Europa e Russia. Senza dimenticare che proprio dalla Lituania era partita nel 1990 la rivolta contro i sovietici che portò alla “vittoria dei musicanti”, come la definì l’ex presidente rumeno Emile Costantinescu.
L’entrata nell’euro delle tre ex repubbliche sovietiche ha però anche acuito ulteriormente le tensioni con Mosca, che per i lituani è un partner commerciale fondamentale, visto che da sola copre il 20% delle esportazioni. Certo è che i Paesi baltici sono molto più che Stati cuscinetto. La loro importanza dal punto di vista geopolitico è aumentata in modo esponenziale, soprattutto dopo la crisi ucraina. E non è forse un caso che il neo presidente, Dalia Grybauskaite, abbia definito la Russia uno “Stato terrorista”, riferendosi anche ad alcuni sconfinamenti dei russi nel baltico nel 2014.
Ma l’euro può rappresentare una guerra di frizione anche tra Paesi virtuosi e i grandi “malati”. Da un po’ di tempo i late comer dell’Europa dell’est hanno cominciato ad avere un atteggiamento sempre più ostile nei confronti della Grecia e degli “aiuti” che riceverebbe da Bruxelles, visti i sacrifici cui sono state costrette le loro economie per entrare nella moneta unica. La beffa delle beffe sarebbe che l’intera impalcatura crollasse loro addosso.
Foto: Reuters