Si è interrotto martedi 2 dicembre il progetto South Stream: vittima del crollo dei prezzi dell’energia, della crisi in Ucraina e dello stallo dei negoziati tra UE e Russia. Il gasdotto che dalla Russia attraverso il Mar Nero avrebbe rifornito l’Europa, cementando il ruolo di Mosca quale primo fornitore della regione, è stato richiuso in un cassetto. South Stream, opera del valore di 40 miliardi di dollari, avrebbe infatti rifornito l’Europa di 62 miliardi di metri cubi di gas naturale – circa il 10% della domanda europa – tramite un gasdotto che avrebbe collegato la Russia all’Europa via Bulgaria, Serbia e poi Austria.
Il progetto South Stream: tra Russia e Unione Europea
L’annuncio è arrivato a dicembre da Ankara dove nel corso della conferenza stampa con il premier turco Erdogan, Putin ha dichiarato in merito a South Stream che “se l’Europa non vuole realizzarlo, non si realizzerà”. Nel primo pomeriggio la conferma definitiva arriva dal numero uno di Gazprom, il CEO Alexej Miller, che dichiara che “il progetto è finito”. Ironia della sorte è che il progetto – che si sarebbe realizzato entro il 2018 ed era nato per eliminare il transito del gas attraverso paesi non comunitari (eccezion fatta per le acque territoriali turche nel Mar Nero) – sia stato bloccato proprio da uno stallo con l’Unione Europea. Già a luglio, infatti, la Commissione Europa aveva richiesto ed ottenuto dalla Bulgaria la sospensione dei lavori per il South Stream sulla base del “Terzo Pacchetto Energia” (in vigore dal marzo 2013) che prevede la separazione dei ruoli di distributore e fornitore di gas, tagliando fuori di fatto il gigante russo Gazprom.
Le negoziazioni da lì in poi si erano bloccate, con la Russia ferma nella propria convinzione che il regolamento del Terzo pacchetto non potesse essere applicato in modo retroattivo agli accordi intergovernativi già firmati con singoli paesi dell’UE tra cui Bulgaria, Ungheria, Grecia, Austria, Slovenia e fuori dall’UE, la Serbia. Ironico inoltre il fatto che il South Stream sia stato bloccato anche dall’inasprirsi delle retoriche sulla situazione in Ucraina, quando furono proprio i debiti dell’Ucraina e la conseguente “chiusura dei rubinetti” ad evidenziare nell’inverno 2006 e 2009 le lacune energetiche dell’Europa. Fu infatti proprio quell’ultima crisi a velocizzare i lavori per la realizzazione di South Stream, ideato proprio per aggirare l’Ucraina. Colonna portante della fine del progetto è stato anche il costante calo del costo dell’energia. In Europa infatti il gas si compra a prezzi indicizzati a quelli del petrolio: ciò significa che se cala il prezzo del petrolio cala quello del gas – cosa che è realmente successa. Il gas costa ora ad unità circa 3 euro in meno di quanto fosse necessario per sostenere a lungo termine il progetto South Stream.
La fine di South Stream, vittoria diplomatica dell’UE o meno, rappresenta sicuramente un duro colpo per diversi attori coinvolti. Sicuramente, per le società partner tra cui spicca anche l’italiana Eni tuttora socia al 20% di “South Stream Transport”, incaricata di costruire e gestire la tratta offshore nelle acque del Mar Nero, ma anche della controllata di Eni, Saipem. Quest’ultima si era infatti aggiudicata tre gare per la costruzione della prima tratta del gasdotto – ultimo lotto di gara di circa 2 miliardi di euro. A distanza di pochi giorni dall’annuncio di Gazprom, Saipem ha già perso l’11% in borsa. Andranno tra l’altro riviste le posizioni degli altri soci della società South Stream, la francese Edf e il gruppo tedesco Wintershall. Bel rompicapo per la prima, seconda e terza economia dell’UE.
I Balcani resteranno al freddo?
Tuttavia, quando questa disputa si traduce in termini pratici, il vero gelo cala sul sud est europeo. Per alcuni paesi il “flusso meridionale” rappresentava infatti una vera e propria garanzia che i problemi dell’inverno 2009 non si sarebbero più ripetuti. La disputa sul prezzo del gas, che causò l’interruzione del transito dei gasdotti in territorio ucraino, aveva portato ad un boom di vendite delle stufe elettriche in Bosnia, una riduzione dell’offerta di gas ad industrie e famiglie in Serbia ed Ungheria, e la chiusura di scuole ed asili in Bulgaria perché senza riscaldamento.
Questi paesi dovranno dunque trovare una soluzione alternativa con Bruxelles, sia dal punto di vista della sicurezza energetica ma anche da quello della sicurezza economica. Il progetto South Stream prevedeva infatti per quei paesi attraversati dal “flusso meridionale” il diritto ad un tariffa di transito che, sommato al numero di posti di lavoro aperti per la costruzione del progetto, avrebbero riempito le casse degli stati in difficoltà finanziaria ed economica. La Serbia, per esempio, contava su un’entrata di circa un miliardo di euro per la sola costruzione del proprio braccio di South Stream: non poco per un paese che ha appena ottenuto un accordo di precauzione con il Fondo Monetario Internazionale.
Inoltre, l’annuncio dell’interruzione del progetto, senza una soluzione solida e definitiva della crisi in Ucraina e l‘incertezza circa il prezzo del petrolio, lascia il futuro energetico del sud est europeo più che incerto, non solo per questo inverno ma anche per le stagioni successive. Quali possano essere le soluzioni a medio-lungo termine è una domanda difficile, che per ora lascia spazio solo a speculazioni.
Il futuro energetico e le prospettive per l’Europa sudorientale
La più veloce alternativa sarebbe stata Nabucco, un gasdotto concorrente al South Stream e sostenuto dall’Unione Europea, che dalla Turchia e tramite la Bulgaria avrebbe rifornito tutto il sud est europeo. Tuttavia, proprio per lo stato più avanzato della progettazione e lavori del South Stream, il progetto fu abbandonato nell’estate 2013. Un addio che ironicamente fu presentato come una vittoria per la Russia.
Le speculazioni parlano invece della possibilità di sfruttare un gas hub nell’Europa centro-orientale, da situare sull’asse Polonia – Slovacchia – Ungheria. La Polonia ha infatti annunciato per il 2015 ingenti investimenti per la creazione di una stazione di raccolta-accumulo di gas naturale liquefatto dal quale Ucraina, Romania e tutto il sud est europeo potrebbero attingere energie. La Slovacchia invece, già nel settembre 2014 aveva attivato un nuovo gasdotto che tramite l’inversione del flusso del gas russo ha rifonito l’Ucraina nell’estate-autunno 2014 nel corso della disputa tra il nuovo governo di Kiev e Gazprom.
Un altro scenario possibile è quello di un impianto per gas naturale liquefatto sull’isola di Veglia (otok Krk), in Croazia, dove un rigassificatore di dimensioni ridotte già accoglie gas dal Qatar e dall’Algeria. Un ampliamento potrebbe diventare conveniente dal punto di vista economico anche per altri paesi che negli ultimi anni hanno investito sulla produzione di gas naturale, quali i paesi nordici, oltre che gli Stati Uniti.
Rimane inoltre la possibilità di accelerare i lavori sul TAP, il Gasdotto Trans Adriatico che convoglierebbe il gas del Caucaso e dell’Azerbaigian verso Grecia ed Albania e poi in Italia. Il TAP è certamente un’alternativa importante ma con diverse criticità: innanzitutto il tempo, poiché i lavori cominceranno nel 2016; e poi per il fatto che il TAP sposterebbe almeno per una parte d’Europa il rubinetto dalla Russia alla Turchia, lavorando inoltre più sulla diversificazione che sull’indipendenza energetica.
In conclusione, esistono diverse opzioni e diverse speculazioni, ma ben poche soluzioni: si prospetta un inverno freddo per i Balcani, con poche schiarite su Bruxelles, il rischio di precipitazioni localizzate a causa delle perturbazioni sull’Ucraina e l’alta pressione sul prezzo del petrolio.
Foto: rferl.org
“lavorando inoltre più sulla diversificazione che sull’indipendenza energetica”: non mi è chiara la contrapposizione (?) o la differente priorità di due concetti, che molti considerano inscindibili se non sinonimi. Grazie