Il quindici febbraio duemilaundici è stato festeggiato (esagerazione: nessuno, nei fatti, si è troppo interessato alla cosa) il ventennale dalla fondazione del Gruppo di Visegrád. Poiché era il lontano millenovecentonovantuno l’anno nel quale la vecchia Cecoslovacchia, Polonia e Ungheria decisero di unirsi in questa misconosciuta alleanza centro-europea al fine di aumentare e implementare la cooperazione, lo sviluppo, gli scambi culturali e magari, facendo blocco, velocizzare il processo di integrazione continentale (il Muro era venuto giù da poco dunque niente pareva troppo scontato.) E certo nel ventennio intercorso sono stati compiuti numerosi passi avanti dai paesi aderenti al club, che nel frattempo sono divenuti quattro per il doppio fiocco rosa di Repubblica Ceca e Slovacchia; eppure del Gruppo di Visegrád ancora se ne parla raramente. Niente di grave, potrebbero ribattere i fanatici del settore: risultano essere così tante le faccende centro-europee ignorate dai media che l’attitudine si è fatta quantomeno prevedibile (di solito i recettori esteri si attivano solo quando qui esonda un fiume, gruppi nazionalisti esagerano nell’alzare la voce, o qualche attaccante sbatte fuori l’Italia dai mondiali.) Inoltre l’aspetto fondamentale è che la democrazia funzioni davvero, la crisi faccia meno danni possibili e nessun capo di governo la spari troppo grossa a Bruxelles o Strasburgo: escluso piccoli scivoloni, possiamo dirci mediamente soddisfatti.
Senza contare quanto si tratti di un organismo in continua evoluzione e difficilmente inquadrabile, l’Europa centrale rappresentata dal Gruppo di Visegrád, poiché solo quattro/cinque anni fa venivano tirati in ballo argomenti adesso (è lecito augurarselo) un filo sorpassati e démodé: un bel po’ d’acqua è passata sotto i pittoreschi ponti locali e non accorgersene sarebbe indicativamente sospetto.
Per dirne una Jiří Pehe -ex collaboratore di Havel e sofisticato analista ceco- nel duemilasei si domandava se fosse proprio l’Europa centrale il problema dell’Unione Europea: il riferimento andava alla tendenza al nazionalismo e al populismo che molti percepiscono come caratteristica radicata e esclusiva di questa fetta di mondo, unita alla persistente sfiducia nell’EU di molti anziani, ma non solo. Tuttavia le cose sono cambiate e spesso in meglio, nell’ultimo quinquennio, nonché certe titubanze si sono dimostrate del tutto infondate. Seguono alcuni casi.
Ai tempi dell’analisi di Pehe in Polonia c’era Lech Kaczyński e il suo partito conservatore-populista Prawo i Sprawiedliwość; adesso (al netto della causa tragica dell’avvicendamento) la faccia della Polonia è quella più presentabile di Bronisław Komorowski.
Ai tempi dell’analisi di Pehe in Slovacchia c’era Robert Fico e la Smer con i propri alleati che l’EU annusava con sospetto; adesso la signora Radičová -benché in calo di consensi- prova a dare una immagine meno slovacco-centrica della nazione unita a spinte europeiste più convinte/convincenti.
Ai tempi dell’analisi di Pehe la Repubblica Ceca era, nonostante una dozzina di cambi di governo, più o meno come adesso però Praga è un caso a parte e forse unico upload positivo da mettere agli atti risulta essere la caduta del governo Topolánek e del successivo, ottimo, esecutivo tecnico di Fisher, cui è seguito l’arrivo di una coalizione dai numeri più o meno sufficienti per garantire le tanto sbandierate riforme (magari solo l’Ungheria riporta segnali meno gradevoli con l’affermarsi delle fazioni più nazionaliste della società, ma data la vicinanza con le elezioni forse serve tempo per trarne un giudizio sensato, anche se nel breve il premier Orbán si direbbe abbia saputo fornire elementi piuttosto esplicativi dei parametri nei quali intende muoversi.)
Quindi un ventennio di transizione e cambiamenti nell’Europa centrale rappresentata dal Gruppo di Visegrád: com’è scontato, non sarebbe potuto essere altrimenti. E certo i dubbi sull’ingresso eccessivamente rapido del vecchio Est nell’EU sono rimasti in numerosi salotti della ex Ovest, sebbene il tempo li abbia un po’ accantonati, talvolta sommersi e impolverati finendo per sostituirli con altre tribolazioni parimenti inquietanti però meno agée (un mantra risalente ai tempi della prima fase del Gruppo di Visegrád era domandarsi se la Polonia fosse o meno capace di un’economia stabile «da EU»: adesso che Varsavia tira il carretto dell’intera zona alcune posizioni paiono quantomeno da rivedere.)
Ciò nel contesto di un allargamento che ha visto per la prima volta tutti gli stati europei confrontarsi tra loro, ognuno con i propri pregi e difetti, e nel quale sono venuti meno anche numerosi pregiudizi di carattere storico-antropologico liminali ma persistenti tipo: «le loro abitudini dittatoriali quanto ci metteranno a scomparire? O la tradizione asburgica alla segretezza e al complotto?» Roba del genere. A fugare gran parte di simili quesiti la radicata tendenza democratica dell’area, l’attitudine allo scambio e alla contaminazione più -senza dubbio- il contributo alla modernizzazione che proprio l’Unione Europea ha saputo elargire. Adesso sembra preistoria, e forse lo è da un punto di vista comunitario, ma tra la metà degli anni novanta e l’adesione di alcune nazioni post-comuniste del 1° maggio 2004 ci fu una insolita convergenza nelle politiche nazionali dei paesi del Gruppo di Visegrád -i vari movimenti conservatori e progressisti nati a seguito della esperienza dittatoriale- al fine di conquistarsi un posto nella famiglia allargata europea; convincente prova di cooperazione forse un filo offuscata dalle vicende successive di screzi e dissidi, ossia elementi agli occhi dei sopraccitati scettici interpretabili come «hai visto? Essere candidati per loro è stato elemento più stabilizzante rispetto all’essere membri.» Guarda strano. Poiché è vero che l’ultimo quinquennio si è dimostrato senza dubbio ricco di alti e bassi per l’Europa centrale, materiale difficilmente inquadrabile sebbene spesso i guai maggiori saltati da una parte all’altra della vecchia cortina non siano riconducibili a esecutivi osceni quanto ad atteggiamenti provocatori o sconsiderati di singoli elementi (d’altronde i cani sciolti sono identificabili a qualsiasi latitudine.) Per questo prendiamo il ventennale del Gruppo di Visegrád come occasione per riproporre la polverosa domanda di Pehe, sebbene corredandola stavolta di una risposta pressappoco definitiva: può essere l’Europa di Visegrád un peso per l’Europa tout-court? La risposta, probabilmente, è no. E sbagliano le (poche ma ancora si registrano) voci a sostenere quanto i difetti dei paesi centro-europei siano intollerabile zavorra per l’intera mongolfiera poiché se «carenza democratica» è Orban lo è anche Berlusconi, e se la Slovacchia ha attitudini discutibili con i Rom diamo una occhiata alle politiche di altri paesi in diversi areali riguardo l’accoglienza e l’integrazione di minoranze (parimenti, se gestioni sconsiderate di economie centro-orientali possono far drizzare le antenne, pensiamo alle economie dell’estrema propaggine occidentale del continente tipo Portogallo, Spagna o Irlanda, e facciamo due conti.)
Il dato ineluttabile è che questo ventennio ha creato una rete di relazioni internazionali a tal punto complessa e indissolubile che divisioni di sorta si sono fatte ogni giorno più fuori dal tempo senza contare quanto -e qui concludiamo tornando al buon Pehe- nei prossimi quindici anni la quasi totalità dei politici centro-europei sarà sostituita da ragazzi cresciuti in società aperte, e la vecchia nenia sullo «studiare in università libere all’estero» come garanzia di visione democratica sopra ogni sospetto non varrà più poiché le università libere da trent’anni le avranno anche in casa i ragazzi di Praga, Budapest, Varsavia e sulla Unter den Linden. Dunque, nel contesto di qualcosa che non somiglia a un Eden perennemente in fiore, battute di arresto o scivoloni non sono mancati e non mancheranno; tuttavia ogni divisione si farà sempre più strumentale e anacronistica. Se mai è stata peso, forse mai sarà motore del continente, l’Europa centrale; tuttavia già essere considerata Europa a tutti gli effetti, e su tutti i livelli, sarà meritata conquista. Ecco il motivo per il quale parrebbe doveroso festeggiare il ventennale del Gruppo di Visegrád, se non con un prezioso champagne almeno con un gradevole spumantino; per un attimo ricordare che esiste e non importa se con alcune di settimane di ritardo. I pochi invitati non screditino l’importanza del party organizzato nel cuore d’Europa.
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