In Europa si aggrottano sopracciglia, si grattano capi, con lunghi silenzi interrogativi. Già perché la Grecia ha chiesto ai partner europei un altro prestito, oltre a quello di 110 miliardi di euro già ricevuto lo scorso maggio tramite il Fondo monetario internazionale, soldi necessari dal momento che Atene non potrà raccogliere capitali sui mercati, che non si fidano. La scorsa settimana si è discusso il da farsi nel corso di una riunione “segreta” dei ministri dell’Economia di alcuni Paesi europei (alcuni, come sempre, quelli che decidono per tutti). Risultato, in Germania sui giornali si ricomincia a parlare di buttare la Grecia fuori dalla zona euro “per rilancire la competitività della sua economia”. I partiti, da destra a sinistra, si dicono d’accordo. Già nel gennaio scorso se ne era parlato, proprio mentre la crisi greca impazzava nelle borse europee.
Il vicolo cieco ellenico
Secondo gli osservatori tedeschi uscire volontariamente dalla moneta unica significa per la Grecia evitare quella “svalutazione interna” che porterebbe a drammatici tagli di salari, disoccupazione endemica, fino al rischio del collasso sociale e della guerra civile. Un’altra Weimar, insomma. Se invece Atene abbandonasse l’euro potrebbe svalutare la propria moneta tornando competitiva. Questo almeno secondo gli economisti tedeschi che malcelano il desiderio di vedere la Grecia fuori dall’eurozona e omettono di dire che il ritorno alla dracma non risolverebbe tutti i problemi: il paese non esporta quasi nulla, è largamente deindustrializzato, e si troverebbe a dover importare molti beni dall’Unione Europea pagandoli in euro, quindi probabilmente molto cari per una “neo-dracma”.
L’attuale pacchetto di aiuti proviene dall’Fmi, il fondo monetario internazionale che, con le sue ricette di austerità promuove salvataggi di economie disperate. Certo, l’abbandono della moneta unica da parte della Grecia è un gesto tragico ma i piani del Fmi lo sono altrettanto. Ecco quindi il vicolo cieco greco: uscita dall’euro, con ripercussioni economiche; nuovo prestito del Fmi, con altrettante ripercussioni economiche; tracollo e collasso sociale in entrambi i casi. Non una bella scelta. Con un secondo problema: l’uscita della Grecia potrebbe rappresentare un grave cedimento per l’unità dell’Unione.
Le “cattive ricette” del Fmi
Partiamo dalle “ricette” del Fmi. In origine, con gli accordi di Bretton Woods, il Fondo aveva lo scopo di evitare crisi economiche, favorendo lo sviluppo e mettendo al riparo da svalutazioni della moneta. Il sistema si basava su rapporti di cambio fissi tra le valute, tutte agganciate al dollaro il quale a sua volta era agganciato all’oro. Dopo che nel 1971 il presidente americano Ricahrd Nixon sospese il gold standard (vale a dire la convertibilità del dollaro in oro) il sistema del Fmi cambiò. Oggi l’Fmi è a modello dell’economia neoliberista e si basa sulla convinzione che il libero mercato sia la soluzione migliore per lo sviluppo economico. Per questo agisce attraverso tre canali principali: la svalutazione della moneta locale; la riduzione del deficit di bilancio; le privatizzazioni massicce. Questo comporta aumento dell’inflazione, a causa della svalutazione, e quindi l’impoverimento. I tagli di bilancio si concentrano sul settore pubblico, colpendo sanità e istruzione. Le privatizzazioni tolgono qualisiasi controllo ai prezzi delle utenze.
La “dittatura” del Fmi
Il Fondo eroga soldi solo a patto che se ne accettino i piani di aggiustamento economico. Gli Stati che accettano perdono sovranità economica. Le politiche economiche del Fmi sono obbligatorie, e scavalcano la consultazione dei cittadini: la democrazia ne esce perciò impoverita. I cittadini, esasperati dalla disoccupazione e dall’inflazione, protestano invano. E per questo sempre più violentemente. Diventa allora necessario rafforzare gli organi di sicurezza e reprimere il dissenso. Così la democrazia viene messa ulteriormente in serio pericolo. E’ quanto avvenuto in Colombia, Tunisia, Messico. E’ quanto sta avvenendo nella vecchia Europa, in Grecia, dove le violenze sono sempre maggiori e la repressione della polizia più forte. La Grecia, cuna della democrazia, rischia di vedersela “scippata” dal Fmi.
Che fare? Se questo quadro è esatto, restare nell’euro o uscirne può essere secondario. Anzi, con una valuta locale più debole, gli effetti collaterali delle politiche del Fmi sarebbero forse più gravi.
La disgregazione europea
C’è poi un secondo ordine di problemi: quello della tenuta dell’unità europea che, mai come ora, attraversa un periodo di crisi. Sempre più partiti antieuropeisti e nazionalisti governano gli Stati d’Europa. Lo stallo di Bruxelles è evidente nella mancanza di un disegno politico unitario che vada oltre la semplice unità economica. Il processo di integrazione di nuovi membri è bloccato. La crisi economica erode consensi e produce fratture tra Paesi più e meno ricchi all’interno dell’Unione. Chiedere alla Grecia un passo indietro sembra obbedire alla logiche del disimpegno: nessuna solidarietà tra Stati, un rompete le righe generale. Per chi ancora crede in un’Europa futura è senz’altro l’ora più nera. Superare la crisi economica superando quella politica, potrebbe essere una soluzione: inventare una nuova Europa, con nuovi e più equi organismi, nel nome della coesione. Ma questa classe dirigente europea, prima ancora della volontà, ha la capacità di farlo?
Intanto l’amata ninfa rapita dal toro giace sterile tra le vuote carcasse della finanza globale.
Vorrei lasciare che altri esperti rispondano sul ruolo del FMI che, di certo, insieme alla Banca Mondiale, è una delle istituzioni più criticate di questa nuova economia, ma non riesco a evitare di commentare.
A favore del FMI si potrebbe dire che è normale che chi presta soldi voglia delle garanzie per essere sicuro che questi tornino nelle sue mani. La garanzia, in questo caso, sono politiche economiche in sui apparentemente il FMI crede. Che però producono i tagli alla prima cosa che può essere apparentemente tagliata, la spesa sociale, causando al paese un rischioso circolo vizioso.
A totale sfavore del FMI – dovrebbe essere la prima cosa da ricordare – è che non è un’istituzione democratica, ma un fondo, appunto, in cui non vige il principio “una testa – un voto”, ma il peso nelle votazioni è determinato dalle quote versate, a loro volta calcolate sull’economia del paese in questione (PIL, apertura economica del paese (!)ecc.. ):
http://www.imf.org/external/np/exr/facts/quotas.htm
Si consideri che gli Stati Uniti hanno il 16.8% dei voti, in proporzione appunto a quanto versano. Credo che gli altri paesi con le percentuali di voto più vicine siano Giappone (6%) e Germania (5.8%). L’Italia è al 3%.
http://www.imf.org/external/np/sec/memdir/members.aspx
Un circolo vizioso, in cui le più forti economie all’interno dell’attuale sistema economico possono incidere su quelle in crisi, che di liquidi hanno bisogno.
L’alternativa, l’interessante alternativa, sarebbe che la Grecia si rifiutasse di pagare il debito che grava sulle sue spalle (come ha fatto l’Islanda)…magari dimostrando che questo debito è stato contratto da governi corrotti ecc ecc.. e quindi illegale. Sarebbe un passo molto rischioso (se non saldi i tuoi debiti, la tua credibilità rasenta il suolo, ed è molto difficile che avrai altri prestiti). Bisognerebbe capire se esiste una soglia tra uno stato che dichiara fallimento e quindi non paga i proprio debiti e uno stato che lo fa sulla base del fatto che non intende accollarsi le spese di governi corrotti (e non semplicemente che abbiano mal gestito la spesa pubblica) e non credo.
http://econoliberal.blogspot.com/2010/05/conviene-far-fallire-uno-stato.html
Il problema, non secondario, è che in Islanda si trattava di un debito delle banche, in Grecia si tratta proprio di economia al collasso.