"Compagno Tito noi ti giuriamo fedeltà": Stella Rossa Belgrado - Dinamo Zagabria, maggio 1980

Gli ultrà e la morte della Jugoslavia


Lo stato serbo è sempre più in balìa di movimenti di estrema destra, dimostrando la fragilità del sistema democratico, la miopia della classe dirigente ed un suo parziale, tacito avvallo a frange extraparlamentari di violenti e neofascisti. Quello che nelle prossime settimane tenteremo – almeno in parte – di analizzare, sono le origini della situazione odierna, come e perché all’alba del 2011 la Serbia rischi di ricadere nel baratro dell’ultranazionalismo. La spinta verso questa via involutiva ha una triplice origine da cui trarre forza: la Chiesa ortodossa serba, le tifoserie ultrà ed i nuovi movimenti fascisti sotto diversa forma.

La questione delle tifoserie calcistiche arriva da lontano, ed assume posizioni e responsabilità estremamente peculiari rispetto ai movimenti hooligans in giro per il mondo. Per capire come, occorre partire dagli ultimi anni della Jugoslavia socialista.

Quando negli anni ’80, alla morte di Tito, la crisi economica cominciò a mordere la Jugoslavia federale, la posizione di forza del Partito Comunista Jugoslavo iniziò a scricchiolare. Questo portò a sempre meno celate richieste di decentralizzazione, democratizzazione ed apertura a libere elezioni. Nei nuovi spiragli che si prospettavano trovarono agilmente spazio voci nazionaliste ed a carattere etnico, forse anche perché dopo cinquant’anni di religione di stato, di Fratellanza e Unità, esse rappresentavano per propria natura un segnale di cambiamento, di ribellione ai canoni tradizionali più o meno forzosamente imposti nei decenni precedenti.

È possibile rintracciare questo mutamento ripercorrendo le pagine sportive dei giornali calcistici dei due principali club serbi, il Partizan e la Stella Rossa (Crvena Zvezda), tra il 1990 e 1992. Esse dimostrano come le tendenze violente e provocatorie, tipiche delle frange tifose d’Europa dagli anni ’70 in avanti, si coloravano in Jugoslavia sempre più marcatamente di caratteri nazionalisti e di appartenenza etnica: slogan politici, canzoni cetniche, motti ustascia e saluti fascisti. Più interessante ancora, è leggere le forti reazioni critiche dei giornalisti, ed il loro progressivo adattamento, parallelamente al nuovo vento politico: il 3 marzo 1990 si può ancora leggere sulle Notizie del Partizan che “il nazionalismo è il male peggiore che possa colpire un paese multietnico”; un mese prima, sulla stessa rivista, un attacco ancora più duro: “Viviamo un’epoca incredibile in cui proliferano tutte le irrazionali bestialità del passato, tra cui – sul nostro territorio jugoslavo – la fomentazione del nazional-sciovinismo ha preso talmente piede da minacciare non solo la generale disintegrazione civile, ma anche il ritorno ai tempi in cui era d’uso quotidiano la ghigliottina, i coltelli e una harač [tassa imposta ai non mussulmani all’epoca della dominazione ottomana, ndt.] sulle teste”. Bisogna perciò stare attenti a quei giovani che vanno allo stadio “con il desiderio di rompere, incendiare, picchiare”, essi “assaltano tutto ciò che significa progresso” (Rivista della Stella Rossa, giugno 1990). I titoli dei vari articoli non sono meno espliciti: “La politica come inquinante”, “Giochi di guerra nazionalisti”, “Niente politica allo stadio!”, “Alle porte dell’inferno”, “La strumentalizzazione dello sport”…

La colpa viene data agli sportivi stessi, che non prendono le distanze dai tifosi, ai dirigenti, che non fanno nulla per rendere più sicuri gli stadi, ma non viene nemmeno sottaciuta “una politica fumosa ad opera di nazi-sciovinisti e di una burocrazia al potere”, perché è chiaro che “il richiamo del sangue ha lanciato un numero non insignificante di governanti odierni nel nostro paese”.

Il peccato originale di articoli così illuminanti, purtroppo, è che riserbano gli epiteti più duri per le tifoserie “nazional-scioviniste” croate, bosniache, slovene, ma non serbe. In particolare, quando si tratta della Hajduk di Spalato e della Dinamo zagabrese; la colpa, secondo i giornalisti di Belgrado, ricade unicamente sulle tifoserie croate, che hanno saputo diffondere attraverso il calcio quelle dichiarazioni d’intenti di stampo fascista ed anti-jugoslavo fatte proprie da Tudjman e dalla sua cricca: certo, anche le tifoserie serbe sono aggressive, ma perché costantemente provocate ed insultate da quelle avversarie, croate e slovene. “I nostri”, si legge sulle Notizie del Partizan, “non saranno migliori, ma sono stati infettati dai loro”.

Chi è Filip Stefanović

Filip Stefanović (1988) è un analista economico italiano, attualmente lavora come consulente all'OCSE di Parigi. Nato a Belgrado si è formato presso l’Università commerciale Luigi Bocconi di Milano e la Berlin School of Economics, specializzandosi in economia internazionale. Ha lavorato al centro di ricerche economiche Nomisma di Bologna e come research analyst presso il centro per gli studi industriali CSIL di Milano. Per East Journal scrive di economia e politica dei Balcani occidentali.

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3 commenti

  1. Slovenia, Bosnia-Erzegovina, Croazia, ecc.. non hanno mai scelto di stare sotto la Serbia. Bisogna riconoscere il loro diritto all’indipendenza da Belgrado.

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