Relazionarsi alla zona orientale o centro-orientale d’Europa significa confrontarsi con l’intera Europa, essendo tornati numerosi e inestricabili i legami ad intercorrere tra quello che fu l’Est e l’ex Ovest del continente: comunità politica, unione monetaria e unico mercato, sebbene oramai orientato in prevalenza lungo vettori non interni, o almeno per larga scala.
L’Euro è stato adottato da una sola nazione tra quelle che furono del Patto di Varsavia (la Slovacchia dal primo gennaio duemilanove) e una di area balcanica, la Slovenia dal duemilasette. Gli altri stati mitteleuropei -definizione polverosa ma piuttosto pratica per indicare Repubblica Ceca, Polonia e Ungheria- risultano destinati a confluire nell’area in date da stabilire e probabilmente differenti tra loro, così come la Romania, la Bulgaria, la Lituania e la Lettonia (in Estonia l’Euro arriverà invece questo gennaio, puntualissimo, o quantomeno c’è ragione di crederlo.) Piccole variabili ma un destino, si direbbe, scritto.
Allargamento che tuttavia in apparenza pare stridere con le voci che vorrebbero il collasso della moneta unica conseguente la crisi economica degli ultimi due anni, e certe gestioni traballanti di politiche nazionali («Pigs» o «Club Med», le identità degli stati a rischio sono ogni giorno su tutte le prime pagine dei giornali.) Tuttavia si tende a sottovalutare un problemino di non poco conto, ossia che scappare dall’Euro non si può, o quantomeno non con le leggi attualmente in vigore: manca infatti una procedura per sciacquarsi di dosso la valuta comunitaria in caso faccia allergia a certi tipi di pelle, per quanto siano circolate -e continuano a farlo- più voci al riguardo, alcune anche curiose.
Lo scenario di una Europa post-Euro viene descritto in un chiaro articolo di Marco Panara su Affari e Finanza dal quale copio/incollo la parte centrale riguardante l’atto finale, il prologo della potenziale tragedia: «proviamo a immaginare. Se per costruire tecnicamente l’Euro ci sono voluti più o meno cinque anni, quanti ce ne vorrebbero per disfarlo? Il tempo necessario non è quello di stampare banconote ma di ricostruire sistemi monetari, di pagamento, creare norme per la transizione […] e via elencando. […] L’economia, per un periodo di qualche mese o più probabilmente qualche anno, sarebbe nel più assoluto disordine [a causa di] una valuta destinata a scomparire e senza conoscere un credibile tasso di cambio con quella destinata a sostituirla. Sarebbe una tragedia». Tragedia, appunto. Maggiore per alcune nazioni e un filo minore per altre (naturalmente per l’Italia sarebbe grossotta sia per l’importazione che per il sistema delle banche, ma anche la Germania non ne guadagnerebbe poi tanto da un Marco 2.0 sì fortissimo però che potrebbe rivelarsi arma a doppio taglio nell’esportazione, o capace di creare bolle interne insostenibili.) Quindi pochi gli aspetti positivi della fanta-fine dell’Euro sebbene alcune voci, quantificabili male nel numero comunque un bel coro, continuino a invocarne lo spettro; certo espressioni di pancia e non di cervello, comunque da analizzare. I paesi più scricchiolanti sull’onda lunga dell’idea di ritrovare una neonata competitività, mentre quelli più forti come la Germania per il diffusissimo sentore che ci sia solo da perderci a fare i «bancomat d’Europa» (definizione frequentissima) prestando soldi a coinquilini sfaccendati o inaffidabili.
E proprio dalla Germania ho sentito le opzioni più singolari riguardo l’Euro e il suo tribolato futuro, non tanto perché fossero state di natali tedeschi (in parte anche…) ma perché a Berlino mi trovavo, e quanto Berlino sia uno snodo fondamentale per l’economia europea è aspetto abbastanza risaputo.
Nell’ordine, si è parlato di una unione monetaria ristretta alle «aree di influenza economica tedesca», facendo così tornare a galla la profezia di Schäuble formulata una ventina di anni fa («il cuore economico e strategico del continente dovrebbe dotarsi di una propria moneta», a riecheggiare l’andreottiana «la moneta unica sarà tedesca o non sarà») o una unione monetaria per quei paesi che accettano «norme comuni sul rigore contabile e il controllo dell’inflazione», come nessuna unione e facciamo prima. Un nuovo corso che potrebbe piazzare moneta unica «nell’aria di influenza economica tedesca (lei c’entra sempre) più (…e ciò si direbbe riguardarci da vicino) qualche stato centro-europeo.» Questa è la novità. Traducendo: inventarsi un sistema per togliere Spagna e Italia dal club e infilarci Repubblica Ceca e Polonia, «nuove democrazie» (termine agghiacciante) ma dinamiche economie.
Sia come sia, una proposta anch’essa durata poco: addirittura meno di quella che voleva la scissione dell’Euro in due ma per orizzontale sull’asse Nord-Sud (i nomi sono favolosi: «Neuro», come il luogo dove stanno i matti, e «Sudo», come la conseguenza di un caldo pomeriggio mediterraneo).
Ne consegue quanto, in un simile contesto, non siano una sorpresa i risultati di quei sondaggi che danno i polacchi contentissimi del loro Złoty, gli ungheresi del Fiorino e i cechi, dal 2005 ad oggi, nel periodo a più basso indice di gradimento/fiducia per la valuta continentale con solo uno/due cittadini su dieci [fonte: agenzia Stem] favorevoli al passaggio da Corona a Euro.
Scrisse verso maggio Pirani: «Come oggi i tedeschi nei confronti dei greci, così in un domani, con un Euro incerto, i veneti, i lombardi e -perché no?- in un futuro prossimo pure i tosco-emiliani potrebbero essere indotti a rivendicare omogeneità monetaria con bavaresi e fiamminghi, piuttosto che con calabresi e siculi.» Boh, sì. Può essere. Ma si direbbe proprio questo il problema; ulteriori frazionamenti, localismi o astrusi ritorni al passato non sono la soluzione. Piuttosto servirebbe (e qui torno al pezzo di Panara) «coesione politica, rapidità, capacità decisionale e credibilità. Ma i vertici europei ce l’hanno?»
Data la sgradevole denominazione data all’alternativa («tragedia») è bene sperare che l’abbiano sul serio.
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