ECONOMIA: Del come l’economia ha esautorato la democrazia facendo da paravento per le politiche del rigore

Partiamo dalla più banale delle constatazioni: nel corso degli ultimi tre decenni l’economia ha assunto un peso sempre più preponderante nella vita politica, divenendo, tra reagan-tatcherismo e neoliberismo, giustificazione primaria per una certa condotta della res publica. Più paradossalmente, tale tendenza ha assunto caratteri d’urgenza a partire dal 2008, proprio quando lo scoppio delle crisi economiche recenti (uso il plurale perché distinte le fasi, la geografia e gli agenti della crisi globale) avrebbe dovuto porre come primo quesito il ripensamento di determinate scuole economiche piuttosto che delle politiche statali.

L’economia come scienza

Eppure, se è stato l’eccesso di positivismo rispetto al sapere (e saper fare) economico a primeggiare sulla centralità della disciplina politica, ovvero ritenere l’economia scienza dura e non disciplina sociale (e gli economisti scienziati sociali), il persistere ancora su tale pericolosa confusione appare solo come una premeditata e strumentale esautorazione della disciplina politica a favore della disciplina economica.

Quest’ultima si è imposta nei decenni recenti proprio grazie alla sua presunta aurea di oggettività, che ha permesso a determinate politiche, sotto l’ombrello concettuale del neoliberismo, di assumere maggiore peso in quanto uscenti vincitrici contingenti dallo scontro epocale contro il comunismo, caratterizzato dalla sua dal piegamento estremo della comprensione del reale a favore di un umanesimo esasperato, e per via della presunta superiorità della tecnica sulla filosofia. Questa non era naturalmente più che una nuova ideologia, l’ideologia della postideologia, che viene oggi facilmente somministrata tramite il diffuso luogo comune per il quale destra e sinistra sono defunte categorie del passato.

La sconfitta del keynesianesimo come sconfitta della socialdemocrazia

Guarda caso, tale idea è sempre più spesso in bocca a uomini di sinistra, la quale in questo scorcio di storia è indubbiamente la sconfitta, che a uomini di destra, che dal canto loro non hanno bisogno di constatare nulla di simile, in parte perché l’altra sponda è bravissima a flagellarsi da sola, ed in parte perché la destra ha operato quel salto di qualità, a braccetto dell’economia, che le ha permesso di elevarsi dalle più basse categorie della disciplina politica verso le più alte vetta della scienza, al riparo della sua ineluttabile oggettività (quanto da vicino ciò ricordi una data ideologia del passato, a pochi viene in mente). I partiti della socialdemocrazia europea, negli ultimi 20 anni, si sono così scientemente trovati nella posizione di dovere, per sopravvivere, scimmiottare tale condotta, ed essendo arrivati tardi all’appuntamento con la tecnica, diventare giocoforza più realisti del re.

È difficile comprendere la sconfitta del pensiero socialdemocratico occidentale solamente alla luce del crollo epocale del blocco sovietico, quasi che il pensiero progressista occidentale fosse parente stretto del socialismo reale – un’assurdità. La verità è che esso è coinciso con una sponda insperata per il padronato nei circoli accademici d’oltreoceano, dove il dettato keynesiano, che aveva seminato i germi del miracolo economico del dopoguerra, è stato scientemente sterilizzato e soppresso per dare spazio ad un approccio che, non potendo essere scientifico, non essendo costruito per appunto sul criterio di falsificabilità, lo doveva perlomeno apparire, forzando un consenso universale in realtà inesistente. Così, oggi, nuove vecchie teorie di governo sociale, quale l’idea di stato minimale, si impongono non per intrinseca forza, ma perché giustificate dall’insostenibilità, a detta degli scienziati economici, dello stato sociale novecentesco secondo i parametri, del tutto arbitrari, dei deficit al 3% del PIL o delle soglie di debito pubblico al 60%. In questa maniera è possibile bypassare lo scontro ideologico, camuffando l’opinione di alcuni, fossero anche molti, dietro l’apparente oggettività dell’economicamente sostenibile.

 Il nuovo governo greco, “estremo e populista”

Proprio quando tale processo è arrivato in Italia al suo sofferto compimento con il governo Renzi, ecco nascere sull’altra sponda del Mediterraneo, inaspettatamente, un vero governo di sinistra come non si vedeva da anni. La recente vittoria elettorale di Syriza nella piccola Grecia ha mostrato fuori di questione, se non altro per le spropositate speranze che ha suscitato tra gli elettori di sinistra europei e non solo, lo slittamento del baricentro culturale europeo verso posizioni sempre più di destra. Ciò è in primo luogo evidente dal gergo della comunicazione: non solo i partiti che persistono a non adeguarsi alla terza via di Blair rientrano immediatamente nella sinistra estrema, ma in virtù della matematica oggettività dei freni al deficit e richiami alla riduzione del debito pubblico, ogni richiesta di revisione in chiave socialdemocratica degli strumenti di governo sociale di un paese sovrano, quali potevano essere quelli operati in Europa al termine del Secondo conflitto mondiale (e la Grecia di oggi, con un quarto della sua ricchezza bruciata e oltre il 25% di disoccupazione, può tranquillamente essere paragonata ad un’economia da dopoguerra), viene tacciata di populismo.

Il nodo gordiano della finanza

Mentre l’opinione pubblica si lascia ossessionare dalla spesa pubblica o dagli indici di produttività, i veri fattori di instabilità sistemica, peraltro i più difficili da spiegare alla gran parte della popolazione, vengono ignorati: la finanziarizzazione dell’economia è stata un tema dominante nei primi due anni di crisi, poi del tutto superato allo scoppio dell’emergenza europea del debito (anch’essa, invero, esacerbata da pura speculazione su strumenti quali i credit default swap). Eppure, al crollo di Lehman Brothers nel settembre 2008 era parsa a portata di mano una severa riforma finanziaria che, se non vincolare, separasse adeguatamente economia reale e finanziaria (così come era stato tra 1933 e 1999 con il Glass-Steagall Act, che isolava le attività bancarie commerciali da quelle prettamente speculative).

Così, oggigiorno, al momento di eleggere un governo diventa più urgente l’approvazione del voto popolare da parte dei mercati, in quanto in grado di rendere instabile l’intero apparato economico di un paese, modificando di fatto e nel giro di pochi giorni le urgenze, e perciò stesso le manovre dei governi. Per quanto anche quella dei mercati possa essere una legittima opinione, che viene espressa attraverso lo spostamento dei capitali, illegittima e soprattutto antidemocratica pare la possibilità per grandi poteri privati di manovrare in maniera tanto intrusiva il corso degli eventi.

Il pericolo di una nuova crisi

Tanto peggio che anche i più  incisivi antidoti che si possono somministrare ad economie che hanno perso la bussola, non sembrano offrire una soluzione definitiva all’instabilità del sistema. L’alleggerimento quantitativo della Federal Reserve statunitense ha pompato, tra 2008 e 2014, qualcosa come 4,5 trilioni di dollari nell’economia reale americana. Se alla base della bolla dei mutui subprime del 2007 vi fu un eccesso di capacità d’investimento (ossia di liquidità) che non trovava sfogo più remunerativo che la speculazione in strumenti derivati, ora che l’economia degli Stati Uniti sembra finalmente avere ripreso il passo, cosa dobbiamo aspettarci da quei 4,5 trilioni di dollari aggiuntivi? È credibile che sosterranno a lungo l’economia reale oppure convoglieranno necessariamente verso nuove forme di speculazione finanziaria, a tassi d’interesse rinforzati? Alla prossima crisi economica globale, la cui unica certezza è che sarà ben più devastante dell’attuale, diremo ancora che il vero problema dei nostri sistemi economici sono gli stati spendaccioni ed i popoli del Sud Europa?

Il compito della disciplina economica

Questo discorso non vuole essere una critica senza appello dell’economia, anche solo perché chi scrive è un economista. È piuttosto il contrario, un incitamento, che più o meno recita così: c’è bisogno di più economia e meno economia politica! Occorre che la disciplina economica ritrovi onestà interpretativa senza piegare pretestuosamente la realtà a concetti preconfezionati, e non tanto per puro amore del bello, ma proprio perché la centralità dell’economico nei sistemi sociali è fuori discussione, e non deve essere strumentalizzata prima ancora di averne afferrato i meccanismi.

Chi è Filip Stefanović

Filip Stefanović (1988) è un analista economico italiano, attualmente lavora come consulente all'OCSE di Parigi. Nato a Belgrado si è formato presso l’Università commerciale Luigi Bocconi di Milano e la Berlin School of Economics, specializzandosi in economia internazionale. Ha lavorato al centro di ricerche economiche Nomisma di Bologna e come research analyst presso il centro per gli studi industriali CSIL di Milano. Per East Journal scrive di economia e politica dei Balcani occidentali.

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