Faceva un gran caldo a Zagabria quel 13 maggio 1990. Non per le condizioni climatiche, considerata la tenue primavera balcanica, ma per la tensione elettrica che attraversava la città. Nel primo pomeriggio era in programma la ‘grande classica’ del campionato jugoslavo: Dinamo Zagabria – Stella Rossa Belgrado. I tifosi si dirigono verso lo stadio, facce tese, tra uno spiegamento di poliziotti impressionante.
Simboli e nazionalismi. Il 13 maggio 1990 è uno di quei giorni obliqui, dove i contorni si sfumano, e una partita di calcio smette di essere importante solo per la classifica. Il maresciallo Tito, che con le buone o con le cattive aveva costruito la Jugoslavia unita dopo la Seconda Guerra mondiale, era morto da dieci anni esatti. Le repubbliche federate erano scosse da fermenti nazionalisti e le squadre simbolo delle capitali di Croazia e Serbia, quel giorno, rappresentavano molto di più della rivalità calcistica per i tifosi sugli spalti dello stadio Maksimir. Certo tra i Bad Blue Boys (nome ispirato a un film del 1983 con Sean Penn), gli ultras della Dinamo, e i Delijie (eroi), quelli della Stella Rossa, non correva buon sangue. Solo che tutto, in quel periodo, prendeva un sapore differente, come aveva dimostrato la partita Partizan Belgrado – Dinamo Zagabria del 19 marzo 1989. La Dinamo vinse a Belgrado e, prima allo stadio, poi lungo le strade che riportavano i tifosi alla stazione, erano volate parole grosse. Parole intrise di odio e nazionalismo. In Croazia, il 7 maggio 1990, si erano tenute le prime elezioni libere del dopoguerra e la vittoria era andata ai nazionalisti guidati da Tudjman. Il calcio è uno specchio della società e la partita, pochi giorni dopo il voto, diventa un’occasione per i tifosi croati di dare sfogo alle loro ambizioni indipendentiste contro il simbolo calcistico di Belgado: la Stella Rossa. Il capo degli ultras belgradesi è un certo Zeljko Raznatovic. Un poco di buono che alla testa dei suoi fedelissimi, che ama chiamare Tigri, parte alla volta di Zagabria. Solo dopo diventerà noto in tutto il mondo con il suo nome di battaglia: il comandante Arkan.
Le tigri di Arkan. Questo gentiluomo, finito assassinato a Belgrado nel 2000, in un’intervista rilasciata nel 1994, ricorda così quel giorno: ”Avevo previsto la guerra proprio dopo quella partita a Zagabria”. Forse perché era parte lui stesso del meccanismo micidiale, nutrito di falsi sentimenti patriottici e di interessi illegali, che si scatenò nella ex Jugoslavia all’inizio degli anni Novanta. Fatto sta che Arkan e i suoi prima devastarono il treno per Zagabria, poi fecero a pezzi tutto quello che trovarono sulla strada per lo stadio. Nell’impianto i tifosi della Dinamo li attendono con cori violenti e offese anti serbe.
Un clima che, purtroppo, è visibile in tanti stadi del mondo. Ma quel giorno, a Zagabria, i sentimenti in campo erano facili da strumentalizzare. Lo speaker non ha ancora finito di leggere le formazioni che i tifosi serbi, al comando del loro ‘eroe’, sfondano le recinzioni e si avventano su tutto quello che riescono a distruggere nello stadio. I Bad Boys non si fanno pregare e attaccano. La polizia federale, la milicija, non sa che pesci pigliare. Cominciano i corpo a corpo in mezzo al campo, tra i tifosi compaiono anche alcuni giocatori. Uno di loro è Zvonimir Boban. Anche se ha solo 21 anni è il capitano della Dinamo, la stella, che davanti a lui ha una brillante carriera in Italia. Prima, però, si butta nella mischia. I tifosi della Dinamo sfondano le recinzioni e si lanciano verso la curva opposta, i poliziotti tentano di evitare un massacro manganellando tutto quello che passa loro davanti.
Follia collettiva. Compreso Boban. ”Non ci vidi più. Mi avventai su un poliziotto e gli gridai: “Vergognatevi. State massacrando i bambini.” – raccontò il giocatore, chiamato Zorro dai suoi fans – Lui mi colpì due volte urlando: “Brutto figlio di puttana. Sei come tutti gli altri!” A quel punto ebbi una reazione d’istinto. Gli fratturai la mascella con una ginocchiata”. Alla fine la calma tornò allo stadio, con un bilancio di più di cento feriti. Che le cose fossero oblique, quel 13 maggio 1990, se ne resero conto tutti il giorno dopo, leggendo la stampa croata e serba. Tutti i media parlarono solo di teppisti allo stadio, ma era evidente la strumentalizzazione che avveniva ormai in tutta la Jugoslavia da parte dei circoli nazionalisti. Non a caso all’inizio del campionato successivo, il 26 settembre 1990, prima giornata dell’ultimo torneo della Jugoslavia unita, la partita Partizan Belgrado – Dinamo Zagabria degenerò. Il Partizan andò in vantaggio per due reti a zero, i tifosi della Dinamo irruppero in campo e inscenarono una manifestazione per chiedere la nascita della Federazione croata di calcio. Armati di spranghe, riuscirono ad ammainare la bandiera jugoslava allo stadio, sostituendola con quella croata. Il 25 giugno 1991 Slovenia e Croazia dichiararono la loro indipendenza, innescando un conflitto sanguinoso che portò alla scomparsa della ex-Jugoslavia. Gli incidenti del 13 maggio 1990 divennero un simbolo, tanto che alcuni ritennero di buon gusto ergere un monumento di fronte allo stadi di Zagabria con una targa che recitava: ”Ai sostenitori della squadra che su questo terreno iniziarono la guerra contro la Serbia il 13 maggio 1990”. Gli stessi che presero la foto di Boban che sfascia la mascella al poliziotto come il simbolo della rivolta croata. Nessuno di loro si è mai premurato di sapere chi fosse quel poliziotto. Avrebbe scoperto che era un ragazzo bosniaco e musulmano. Intervistato anni dopo, ha dichiarato di perdonare Boban per il suo gesto, perché quelli erano giorni dove le persone parevano cieche.
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