CINA: Pechino diventa membro del Consiglio Artico. Se il Polo Nord ha gli occhi a mandorla

Un Artico di fuoco

Lo scioglimento dei ghiacci polari, causato anche dal riscaldamento globale, ha aperto nuove rotte e consentito l’accesso ad aree fin qui inaccessibili. Nei fondali marini si nascondono preziosi giacimenti di gas, petrolio, diamanti, oro, carbone, ferro che sono ora più facili da sfruttare e su cui tutti gli stati che affacciano sull’Artico vorrebbero mettere le mani.  Una “guerra fredda” che sta portando alla militarizzazione dell’Artico e che ha gravi ricadute sull’ambiente e rischia di mettere a repentaglio la vita delle comunità locali, aleutine e inuit.

La Russia non ha esitato a mostrare i muscoli e ha fatto precise rivendicazioni: tutto parte dalla dorsale Lomonosov, che sotto il mare collega la piattaforma artica al continente siberiano senza interruzioni: secondo Mosca, dunque, quella è terra russa e per questo chiede una “quota” dell’Artico molto superiore a quella che le viene riconosciuta attualmente. Per questo entro fine anno i russi torneranno alla carica alle Nazioni Unite portando avanti le proprie istanze. La questione non è così semplice perché oltre alla Russia anche gli Stati Uniti, il Canada, la Danimarca e la Norvegia sono pronti a difendere i propri interessi e rivendicazioni sul Polo vengono anche da danesi e canadesi. Per non parlare di una ventina di altre nazioni che, prendendo a modello l’Antartide, sostengono che le risorse attorno al Polo Nord debbano essere accessibili a tutti. Tra queste la Cina.

Tutti gli affari della Cina “artica”

Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti, insieme alla nuova Russia, al Canada, alla Norvegia e alla Danimarca hanno costituito diversi organismi di cooperazione dell’area che si sono succeduti nel tempo: il Consiglio Artico (1996) è l’organismo che attualmente regola i rapporti tra i paesi che affacciano sul Polo. Recentemente però un nuovo membro è entrato nel Consiglio Artico, la Cina, che nel maggio 2013 ottiene lo status di “osservatore permanente” al posto di quello più limitativo di osservatore “ad hoc”, rivestito sinora.

La capacità economica cinese è evidente a tutti e gli islandesi sono stati i primi a firmare, nell’aprile scorso, un accordo di libero scambio con la Cina, seguito dalla stipula di un accordo tra la China National Offshore Oil Corporation, la principale società petrolifera cinese, e la piccola società islandese Eykon Energy, con l’obiettivo di ottenere licenze per le esplorazioni petrolifere al largo della costa nordorientale dell’isola.

Superata la crisi nei rapporti sino-norvegesi determinata dall’attribuzione del Nobel per la Pace al dissidente Liu Xiaobo, lgli interessi economici comuni hanno permesso di riaprire la strada a un’intensa politica di iniziative commerciali come i contratti China Oilfield Services-Statoil per una campagna di trivellazioni nel Mare del Nord) e le molte fusioni e acquisizioni societarie tra Cina e Norvegia.

Per quanto riguarda il Canada, la compagnia Cnooc (Chinese National Oil Overseas Corporation), gigante statale cinese del petrolio, si è mossa per tempo acquistando la canadese Nexen per 15,1 mld di dollari: la maggiore operazione conclusa da un gruppo cinese in campo internazionale. Mentre un’altra compagnia petrolifera, la Sinopec, ha annunciato di aver rilevato il 49% della Talisman Energy, anch’essa canadese, per 1,5 mld di dollari.

Contenziosi aperti

Aprire la porta alla Cina è, per quasi tutti i paesi dell’area, un lucroso affare. In tempi di crisi economica i soldi cinesi fanno gola e poco importa se Pechino con l’Artico non c’entra nulla. La presenza cinese complica un quadro geopolitico fatto di contenziosi territoriali ancora aperti: la delimitazione della frontiera tra Russia e Norvegia nel mare di Barents; la sovranità dell’isolotto di Hans e la dorsale di Nansen-Gakke rivendicate da Danimarca, Canada e Russia; la delimitazione della frontiera tra Alaska e Canada nel mare di Beaufort; il controllo e gestione della via marittima nord-occidentale tra Usa e Canada, quest’ultimo è il cosiddetto “passaggio a nord ovest”.

Gli Usa considerano il passaggio a nord-ovest come acque internazionali, mentre il Canada le considera acque territoriali canadesi. La disputa assume importanza se si considera che le rotte dall’Europa all’estremo oriente risparmierebbero 4.000 km attraverso il passaggio, rispetto alle attuali rotte che passano per il canale di Panama. Nel 2008, per la prima volta nella storia moderna, si è naturalmente aperto tutto il passaggio a nord-ovest, che risultava sgombro dai ghiacci, e contestualmente anche il passaggio a nord-est, a settentrione della Russia. Si ritiene che a causa del riscaldamento globale questa via resterà naturalmente aperta per lunghi periodi negli anni a venire e questo riaccende la contesa. Una contesa dove, da ora in poi, la Cina “artica” potrà far valere tutto il suo peso.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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