Bisognerà dimenticarsi di Dervo Sejdic e Jakob Finci? Un recente rapporto della European Stability Initiative (ESI) mette in dubbio l’opportunità da parte delle istituzioni UE di condizionare il cammino dell’integrazione europea della Bosnia (ovvero l’entrata in vigore dell’Accordo di Stabilizzazione ed Associazione) all’attuazione della decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) nel caso Sejdic e Finci, suscitando un ampio dibattito. La Sejdic-Finci è una sentenza Cedu del 2009, che giudica in violazione della Convenzione europea sui diritti dell’uomo quella parte della Costituzione bosniaca che esclude coloro che non appartengono ai cosiddetti popoli costituenti (bosgnacchi, serbi e croati) dalla possibilità di essere eletti alla Camera dei popoli (Dom naroda – la camera alta nel sistema costituzionale bosniaco) o alla presidenza della repubblica [East Journal se n’è occupato nel numero #4 della nostra rivista Most].
La posizione dell’ESI è che condizionare il cammino europeo della Bosnia all’attuazione della sentenza di Strasburgo sia sbagliato e controproducente. Al rapporto ESI ribatte il think tank americano Democratization Policy Council (DPC), che risponde in maniera molto critica al suddetto rapporto. In questo post si riporta la posizione di ESI, seguita dalla critica del DPC.
L’attacco dell’ESI: per l’UE focalizzarsi sul caso Sejdic-Finci è sbagliato e controproducente
In primo luogo, rimarca il think tank diretto da Gerald Knaus, altri paesi o regioni d’Europa hanno sistemi costituzionali ancora più etnicamente rigidi rispetto alla Bosnia. Si citano gli esempi dell’Alto Adige, del Belgio e di Cipro. Particolarmente emblematico è l’articolo 2.7 della costituzione cipriota, secondo il quale una donna sposata automaticamente fa parte del gruppo (etnico/religioso) al quale appartiene suo marito. L’appartenenza al gruppo, come in tutti i paesi succitati, non è solo un fatto privato, ma ha una forte rilevanza politica (“proporzionale etnica” nell’amministrazione pubblica e/o in termini di rappresentanza politica). Alla luce di questo (e si tratta di stati o regioni UE), secondo l’ESI sanzionare la Bosnia non sarebbe giustificato.
Connesso al primo punto è la questione dei “double standards”. L’Unione Europea infatti vuole bloccare il cammino europeo della Bosnia per via della non attuazione della decisione dei giudici di Strasburgo. Ma, statistiche alla mano (p.4-5), la Bosnia è uno dei paesi più virtuosi a seguire i dettami della Corte europea dei diritti dell’uomo. Soltanto 17 casi non sono stati applicati, mentre in Italia, il paese meno virtuoso, questo numero sale a 2.522 (entrambi i dati sono del 2011). Peraltro, la Bosnia è stata condannata per violazione del dodicesimo protocollo alla Convenzione. Questo protocollo, che vieta ogni forma di discriminazione, è stato ratificato soltanto da tre stati dell’Unione Europea a 15 (Paesi Bassi, Spagna e Finlandia).
Oltre che ad essere sbagliato, il rapporto ESI ritiene che perseverare nella richiesta dell’attuazione della sentenza come precondizione per l’integrazione europea della Bosnia sia addirittura controproducente. A questo proposito ESI nota che la Bosnia nei quattro anni da quando la sentenza è passata in giudicato non è riuscita a trovare una formula per mettere in atto la sentenza. I politici in Bosnia sono d’accordo che la sentenza vada rispettata, ma sono divisi sul come tradurre la sentenza in cambiamenti costituzionali. Visto che l’attuazione di decisioni che modificano la rappresentanza politica dei gruppi etnici è difficile (si citano gli esempi di Cipro e del Belgio, in particolare l’attuazione della decisione della corte costituzionale belga nel caso del distretto elettorale di Bruxelles-Halle-Vilvorde), anche la condizionalità UE, che vuole condizionare gli aiuti finanziari UE all’attuazione della sentenza Sejdic-Finci, non avrà successo. A farne le spese saranno i cittadini bosniaci.
La soluzione che ESI propone è che coloro che non appartengono ai popoli costituenti utilizzino la flessibilità inerente al sistema bosniaco. Ovvero, il candidato che appartiene alla minoranza rom, Dervo Sejdic, e quello della comunità ebraica, Jakob Finci, dovrebbero semplicemente dichararsi appartenti ad uno dei popoli costituenti. In questo caso, potrebbero essere eletti e la fattispecie non sarebbe poi così tanto diversa dalla situazione nella regione di Bruxelles. Per il parlamento di Bruxelles, infatti, i candidati devono dichiarare se intendono competere per seggi riservati ai francofoni o per quelli riservati ai fiamminghi. Anche se a Bruxelles il numero di candidati di origine straniera è molto alto, nessuno sembra voler aggiungere altre categorie all’attuale sistema.
A questo proposito un nuovo rapporto ESI, intitolato Houdini in Bosnia – come sbloccare il processo di integrazione europea, specifica che la situazione di stallo in merito all’implementazione di Sejdic e Finci ha evidenti costi economici per i cittadini bosniaci.
La difesa del DPC: tornare sui propri passi sarebbe ancora peggio
In totale disaccordo con la posizione di ESI è una policy note del think tank americano Democratization Policy Council, a firma di Sören Keil.
In primis, Keil accussa il rapporto ESI di non contestualizzare i sistemi di discriminazione etnica dell’Alto Adige, del Belgio e della Bosnia. Il ragionamento di Keil è che mentre in Alto Adige e in Belgio l’intenzione di questi sistemi è di tutelare le minoranze, questo non è il caso della Bosnia. In aggiunta, questi sistemi sarebbero più flessibili, in pratica anche se non in teoria, rispetto a quello bosniaco. A testimonianza di ciò, Keil cita i casi del primo ministro belga (Elio di Rupo, appartenente alla minoranza francofona) e di un senatore italiano (Francesco Palermo, eletto sulla lista Pd-SVP con un importante contributo di voti della maggioranza tedesca in Alto Adige).
In secondo luogo, Keil accusa ESI di foraggiare false speranze. In poche parole, senza la condizionalità UE, la decisione di Strasburgo non verrà mai attuata. Accettare la Bosnia come paese candidato senza aver attuato la sentenza avrebbe come effetto politico quello di indebolire i politici che si sono battuti per l’attuazione di Sejdic-Finci a tutti i livelli e di premiare coloro che hanno ostacolato ogni accordo fino ad ora. Per questo, qualora l’UE seguisse le raccomandazioni dell’ESI, secondo Keil, essa manderebbe il segnale sbagliato.
In terzo luogo, Keil accusa il rapporto ESI di ignorare le realtà politiche della Bosnia. In sostanza, i politici rispondono in maniera totalemente razionale al sistema perverso di incentivi creato dalla costituzione di Dayton. Per questo motivo, si dovrebbe cambiare il sistema. Questo può avvenire sia attraverso una partecipazione più diretta dei cittadini (Keil cita i casi di Irlanda e Islanda), sia attraverso la condizionalità dell’Unione Europea. Dato che l’UE non è un attore sufficientemente forte per spostare gli equilibri politici in Bosnia senza l’appoggio degli Stati Uniti, quello che Bruxelles può fare è condizionare aiuti economici ai suoi obiettivi tecnici e politici nonché rafforzare lo stato di diritto in Bosnia. Infine, Keil accusa il rapporto ESI di fornire la struttura ideologica a Bruxelles per giustificare i fallimenti dell’Unione Europea in Bosnia.
In ogni caso all’UE serve un piano B – che fare se lo stallo continua?
L’argomentazione di Keil sembra più convincente alla luce delle realtà politiche bosniache, tuttavia il merito del rapporto ESI sta nel fatto di aver suscitato un dibattito su un problema che effettivamente c’è – ovvero la necessità per l’UE di avere un piano B se la sentenza Sejdic e Finci continuasse a non trovare attuazione.
Dato che più di quattro anni sono passati da quando i giudici di Strasburgo hanno deciso il caso, è chiaro che la UE si trova davanti ad una scelta. Da un lato, perseverare nella richiesta della sua attuazione, alzando la posta in gioco, ovvero riducendo drasticamente i fondi europei in caso di mancato progress, o minacciando di non riconoscere i risultati delle elezioni del 2014. Oppure, abbassare i requisiti necessari al proseguimento del cammino europeo della Bosnia, rimandando sine die la richiesta di cambiamenti costituzionali, come successo con la Repubblica di Cipro, che fu ammessa all’UE senza che in cambio si fosse arrivati alla riunificazione dell’isola prevista dal piano Annan.
L’UE sembra più orientata verso la prima strada, mantenendo fede agli impegni assunti, anche se eventuali ripensamenti non sono da escludere qualora questa strategia continuasse a rivelarsi avara di risultati.
Foto: Skolegium.ba
Complimenti per l’articolo. Veramente ben fatto! 😉