La guerra in Bosnia non fu solo storia di morti ammazzati, a migliaia. Certo la pulizia etnica, che rappresenta l’indotto sociale più pesante di quegli anni, è passata attraverso genocidi, carneficine, deportazioni forzate e persino attraverso lo stupro sistematico, utilizzato come vero e proprio strumento di guerra, funzionale allo scopo. Ma c’è, incanalata nel medesimo alveo e con ragioni del tutto identiche, una parte di storia meno raccontata, ma comunque importante, una parte che consente di dare complemento al quadro d’insieme.
Con un termine che in quegli anni fu definitivamente sdoganato proprio per descrivere quanto stava accadendo a Sarajevo, si potrebbe definire quella fetta di storia come “urbicidio”, ovvero il tentativo sistematico di azzerare la storia, e quindi la memoria collettiva, attraverso la devastazione dei luoghi, la loro cancellazione fisica, la distruzione di tutto ciò che attiene un passato che si vuole scomodo o ingombrante.
Una parte preponderante di quel tentativo riguardò, in Bosnia, i luoghi di culto che, nell’intento di accreditare una presunta radice etnico-religiosa del conflitto, furono presi di mira, da una parte e dall’altra, senza curarsi di risparmiare gli edifici simbolo, come la moschea Ferhadija, a Banja Luka, considerata la più bella del paese e inserita nel 1950 tra i beni UNESCO. A fine guerra si stima che furono almeno 1.880 gli edifici religiosi islamici rasi al suolo, 400 le chiese cattoliche distrutte e non meno di un centinaio quelle ortodosse cancellate per sempre dalla geografia urbana del paese.
Ora la cronaca di questi giorni ci porta ad una storia per certi versi uguale e contraria: uguale perché l’oggetto riguarda proprio la rimozione di una chiesa, contraria perché questo gesto si inserisce, nel caso specifico, nell’ambito del legittimo riconoscimento di un diritto. Ed è quanto mai evocativo che il teatro di questa vicenda sia Konjevic Polje, villaggio a due passi da Bratunac, nella vallata del fiume Drina, dove tutto ebbe inizio nella primavera del 1992.
La storia è quella di Fata Orlovic, che la sua personale battaglia l’ha cominciata a combattere oltre vent’anni fa quando, a guerra conclusa, tentò di rientrare a casa propria, abbandonata con i suoi sette figli qualche anno prima, nel pieno dell’offensiva serbo-bosniaca. Orlovic, che nella guerra ha perso il marito e una trentina di familiari, si avvale del diritto sancito dagli accordi di Dayton che, nel 1995, hanno messo fine al conflitto prevedendo, tra l’altro, il libero ritorno dei rifugiati nelle loro proprietà. Un tentativo, tardivo e persino un po’ ingenuo, di porre rimedio all’immane e, ormai irreversibile, processo di rimescolamento etnico subito dall’intera Bosnia.
Nel frattempo, però, la parrocchia ortodossa di Drinjaca ha costruito una chiesa su quel terreno, senza premurarsi di chiedere alcunché ai legittimi proprietari. Una chiesa non è un edificio qualsiasi ma è un simbolo del successo della pulizia etnica, un tassello emblematico di quella strategia. È forse anche per questo che Orlovic intraprende una battaglia legale affinché le venga restituita, per intero, la propria terra, incluso l’appezzamento sul quale la chiesa è stata edificata: quest’ultima, dunque, andrà abbattuta e ricostruita altrove.
È una battaglia aspra, quella di Fata Orlovic, combattuta tra intimidazioni fisiche, minacce e accuse di “essere portatrice d’odio”; ma è una battaglia che la vede prevalere pienamente quando, nel 1999 e nel 2001, la Commissione ONU per i diritti alla proprietà dei rifugiati (Commission for Real Property Claims of Displaced Persons and Refugees, CRPC) stabilisce che essa ha diritto a riottenere il possesso dei propri beni. Una sentenza, però, rimasta sulla carta per quanto attiene il lotto su cui giace la chiesa, al punto da costringere la protagonista, lo scorso anno, a fare ricorso contro lo Stato di Bosnia Erzegovina alla Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) per rivendicarne la piena attuazione.
È del primo ottobre scorso la sentenza con cui la CEDU stabilisce che c’è stata effettivamente violazione dei suoi diritti alla proprietà e che non solo “il governo non ha offerto alcuna giustificazione alla propria inazione” ma, anche, che “il lunghissimo ritardo equivale ad un chiaro rifiuto delle autorità ad eseguire le decisioni [della CRPC]”. Nelle conclusioni la Corte di Strasburgo, oltre a sollecitare lo stato a dar seguito alle sentenze della CRPC, ordina esplicitamente “la rimozione della chiesa dal terreno” di Orlovic “senza ulteriori itardi, entro e non oltre i tre mesi”.
Stando alla sentenza, dunque, la chiesa dovrebbe essere rimossa, in punta di diritto, entro la fine di quest’anno. Staremo a vedere: certo è che questo riconoscimento ha una forte valenza simbolica e poco importa, a questo punto, che la decisione della corte sia arrivata con il voto contrario di uno dei sette giudici (il danese Jon Fridrik Kjølbro) in ragione non tanto del merito, quanto del metodo (la proprietà della chiesa in questione non era parte del dibattimento).
Improntate alla moderazione le dichiarazioni post-sentenza da parte di Fata Orlovic per la quale questa battaglia rappresentava più che altro una questione di principio: “sono felice ma non considero questa una mia vittoria. Quello che volevo era semplicemente che fosse spostata la chiesa perché era stata edificata sulla mia terra”. Un perseveranza quella di Fata Orlovic che le è valsa, nel 2007, il riconoscimento di “Donna Coraggio” assegnatole nel 2007 dall’ambasciata statunitense in Bosnia-Erzegovina per la sua lotta non violenta.