Il 16 giugno del 1989 si celebravano in Ungheria i solenni funerali di Imre Nagy e degli altri quattro martiri della rivoluzione del ’56 in una Hősök Tére gremita da oltre 200.000 persone. Un evento catartico dell’89 ungherese, esequie inconsapevoli della stessa Repubblica popolare, spentasi pochi mesi dopo.
Una transizione semplice?
L’uomo simbolo della Repubblica popolare ungherese, János Kádár, era stato allontanato già da qualche mese, l’8 maggio 1989, in quel susseguirsi di eventi che di lì a poco portarono la dirigenza comunista ad aprire un dialogo con le opposizioni, nella Tavola rotonda nazionale. Una piattaforma multipartitica che coinvolse i maggiori movimenti politici del periodo, interessati ad una riforma complessiva del sistema ungherese.
Era lo stesso regime kádárista ad essersi esaurito, spinto sull’orlo del lastrico da una politica economica onerosa, che aveva garantito al paese un discreto livello di benessere rispetto agli standard socialisti, (quasi) interamente finanziato in deficit. Mentre il sistema veniva discusso dall’interno, anche la posizione internazionale di Budapest mutava, rafforzando i legami del paese con l’occidente. Di grande impatto fu, in questo senso, l’accordo austro-ungherese del maggio 1989, che portò allo smantellamento della Cortina di ferro sul vecchio confine interno della Duplice monarchia: una misura dall’innegabile valore simbolico, favorita anche da un calcolo pragmatico. La fragile economia ungherese aveva disperato bisogno di valuta estera, e questa maggior apertura fu approvata dal presidente statunitense George Bush, in visita a Budapest nel luglio, mentre la Germania ovest garantiva al paese danubiano l’accesso al credito necessario alla ristrutturazione dell’economia.
La Repubblica popolare, ormai svuotata dei propri contenuti non sopravvisse che qualche mese alla morte dell’uomo che l’aveva guidata per oltre trent’anni. Dopo il decesso di János Kádár, avvenuto nel luglio, anche il regime si spense il 23 ottobre del 1989, con l’annuncio della nascita della Repubblica ungherese.
Dal referendum alle elezioni
I partiti protagonisti del 1989 trovarono su questo punto un primo scoglio. Mentre il partito socialista – erede di quello socialista-operaio – aveva spinto per una soluzione presidenziale, questa ipotesi fu aspramente criticata dai liberali, sia appartenenti alla SzDSz, alleanza dei liberali democratici, che alla FIDESz, alleanza dei giovani democratici. Una dura battaglia, che si concluse con un referendum che premiò – per soli 6000 voti – le istanze liberali.
La nascente democrazia magiara andò così nel 1990 al voto con un sistema a doppio turno, misto maggioritario e proporzionale, che premiò il Magyar Demokrata Fórum (MDF), un’alleanza composta da anime molto diverse, che trovavano un punto in comune nel nazionalismo e in un’ideologia cristiano-democratica, guidata da József Antall.
Il nuovo governo perseguì un’ambiziosa politica internazionale, concludendo nel giugno del 1990 un accordo con Mosca per il ritiro delle truppe sovietiche, e promuovendo l’avvicinamento alla Comunità Economica Europea. Per questo Antall si recò prima a Bruxelles, quindi a Roma – presidente di turno della comunità – senza però ottenere i risultati sperati. La CEE, lungi dall’impegnarsi direttamente, preferì favorire la costituzione di un gruppo di coordinamento fra gli stati del vecchio blocco socialista, il gruppo di Visegrád, associato poi all’organo comunitario nel 1992.
Del resto, le uscite nazionaliste di diversi esponenti del Fórum non favorivano questa politica, specie se accompagnate da un manifesto antisemitismo, come nel caso di István Csurka, scrittore e membro di rilievo del movimento che, indicando gli squilibri provocati dalla transizione al libero mercato, individuava nell’influenza del capitale ebraico la fonte dei problemi.
Un sentimento diffuso
Il nazionalismo era un sentimento radicato nel Fórum, e si manifestò anche nella rivalutazione di diverse figure storiche del Novecento ungherese. Fu riabilitata la figura del Cardinale József Mindszenty, la cui salma fu trasportata da Vienna a Budapest, ma anche quella del Reggente Miklós Horthy, le cui ceneri furono rimpatriate e inumate davanti a 20.000 persone presso Kederes, villaggio natale dell’ammiraglio. Allo stesso modo il recente passato comunista venne “esiliato” dal centro storico, con la creazione del Memento Park (1993), parco di statue alla periferia della capitale.
Non che questo nazionalismo fosse inspiegabile. La fine del blocco socialista portò alla ribalta tensioni etniche e contrasti con gli stati vicini, nascosti sotto la cappa dell’internazionalismo socialista. Esempi di tensione sono ben noti, basti ricordare gli eventi del “marzo nero” di Târgu Mureş, o la partita di calcio fra Ferencváros e Slovan Bratislava nella coppa dei campioni del 16 settembre 1992, quando la polizia slovacca caricò i tifosi magiari sugli spalti.
Malgrado questa politica nazionalista e un certo successo a livello internazionale, fu sul piano economico che il Forum pagò il peso della transizione: nel biennio 1991-1992 il paese perse oltre il 30% della produzione industriale, mentre per le strade magiare dilagava un fenomeno ormai dimenticato: quello della disoccupazione.
Immagine: József Antall, 1990 (Fortepan.hu)