L’ormai proverbiale connubio tra est-europeo e degrado, inciviltà, brutalità, nazionalismo sembra non riuscire a estinguersi. Se la fine delle guerre nell’ex Jugoslavia e il processo di integrazione europea sembravano poter aprire la strada a un ripensamento della tradizionale immagine dell’altra Europa, ci hanno pensato i governi autoritari e nazionalisti a ricacciare l’oriente nella spazzatura del discorso mediatico. Gli attacchi alle libertà fondamentali e, soprattutto, il rifiuto perenne alla ripartizione dei migranti, hanno irrimediabilmente etichettato i paesi dell’ex blocco comunista come xenofobi, iper-nazionalisti, moralmente sottosviluppati rispetto al progredito ovest. Pochi hanno cercato di capire il perché di tutto questo. Sebbene un’analisi attenta e di ampio respiro non possa comunque giustificare certe politiche, essa può forse aiutare a comprenderle.
Le transizioni post-comuniste: un successo parziale
Il primo errore che l’occidente compie è quello di interpretare la storia post-comunista degli stati dell’Europa orientale come una lunga cavalcata di successi. La transizione ad un’economia di mercato e ad un regime politico liberal-democratico, coronata con l’ingresso di molti paesi dell’area nella NATO e nell’UE, viene vista come una vera e propria glory road che ha portato paesi prima poverissimi verso standard di vita sempre più simili a quelli dell’Europa occidentale. Si tratta di un’interpretazione superficiale e, talvolta, fuorviante. Sebbene sia innegabile il livello di sviluppo economico raggiunto negli ultimi anni da paesi come Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Romania, esso nasconde una realtà ben più frastagliata. Dietro i fantasmagorici numeri sulla crescita del PIL e sull’esiguo tasso di disoccupazione, si staglia un sottobosco fatto di rampante povertà. Molti ancora soffrono delle privatizzazioni selvagge degli anni ’90, che hanno causato la perdita di numerosi posti di lavoro e un generale aumento del costo della vita. Non tutti hanno beneficiato del cambiamento del sistema, e chi prima riusciva a vivere grazie agli aiuti forniti dallo stato assistenziale comunista, si è ritrovato disperso in una giungla economica nella quale ha fatto fatica ad orientarsi. Questo ha causato in alcuni paesi una massiccia migrazione verso ovest. Il caso di Romania e Bulgaria è emblematico; addirittura Sofia ha perso 2 milioni d’abitanti tra il 1989 e il 2009, passando da 9 a 7 milioni. Chi invece, come l’Ungheria, aveva goduto di un’economia relativamente stabile negli ultimi decenni di comunismo, ha costruito su fragili basi il suo boom degli anni ’90, e si è ritrovata a dover mettere in atto pesanti misure d’austerità specialmente dopo lo scoppio della crisi economica mondiale. Tra le varie cause dell’exploit di Orban del 2010 vanno ascritti i malumori di buona parte della popolazione ungherese per le riforme economiche “lacrime e sangue” portate avanti dal governo del suo predecessore Gordon Bajnai. Non è quindi un caso che molti, disorientati da un’economia imprevedibile, da un futuro incerto, dall’emigrazione abbiano cercato rifugio in chi prometteva di rimettere le persone comuni al centro della politica nazionale. Non basta tuttavia l’economia a spiegare il successo dei conservatori nazionalisti: la Polonia registra da anni una crescita impetuosa, grazie soprattutto al sostegno dell’UE. Il governo di Piattaforma Civica ha garantito al paese ottimi risultati economici, che non sono tuttavia bastati ad evitare la clamorosa sconfitta alle elezioni del 2015. Il politologo francese Jacques Rupnik ha spiegato così il risultato: “Piattaforma Civica ha perso perché si era esaurito il progetto liberale basato sulla concorrenza sovranazionale e sull’invito ad arricchirsi. PiS di Kaczynski invece ha vinto poiché ha sostenuto un progetto collettivo basato sul patriottismo e i valori cristiani” (J. Rupnik, Senza il muro. Le due Europe dopo il crollo del comunismo, Donzelli, 2019). Il richiamo all’identità e al patriottismo si è rivelato un’arma politica letale proprio mentre l’Europa occidentale combatteva con l’annosa questione migratoria.
Perché nell’Europa orientale non vogliono i migranti?
Anche dietro il rifiuto all’accoglienza si nascondono problematiche profonde che non possono esaurirsi in una semplice indole xenofobica e intollerante. Niente più dell’apertura dei confini ha simboleggiato la fine del comunismo e l’apertura all’Occidente; ancora oggi la libertà di viaggio è uno degli aspetti più apprezzati dell’integrazione europea in buona parte dell’Europa orientale. Vi è, tuttavia, un’altra faccia del libero movimento: l’emigrazione massiccia. Oltre al già citato caso bulgaro, vanno citati i 3,5 milioni di romeni che hanno lasciato il loro paese dopo il 2007, per non parlare del totale spopolamento di molte aree della Germania orientale dopo il crollo del muro di Berlino. A contribuire al sensibile calo demografico intervengono poi il progressivo invecchiamento e i bassi indici di natalità: paesi economicamente solidi come Lettonia e Lituania hanno perso negli ultimi anni rispettivamente il 27 e il 22.5 % della popolazione. Se a ciò si aggiunge l’immagine disastrosa del fenomeno migratorio che ormai viene propagata da buona parte dei media occidentali e condivisa da larghi settori dell’opinione pubblica, l’atteggiamento del blocco orientale risulta meno sorprendente. In paesi che stanno vivendo una vera e propria rivoluzione demografica, è che registrano milioni di partenze annuali, anche soltanto paventare l’idea di accogliere persone con un background culturale diverso diventa terrificante. I più vogliono che i governi si impegnino nel far tornare a casa chi è partito, piuttosto che ad accogliere migranti. Vi sono poi delle motivazioni storiche da non sottovalutare. Per cinquant’anni il comunismo ha educato le masse della regione all’internazionalismo proletario: si trattava, tuttavia, di un internazionalismo fantoccio, dietro il quale si mascherava un intimo sospetto verso il vicino. Erano gli stessi leader comunisti a parlare apertamente di fratellanza socialista, pur tenendo sempre desta l’attenzione sulle manovre degli alleati. E’ naturale che chi è cresciuto in questo clima di finto e ambiguo cosmopolitismo non possa poi farsi portavoce delle grandi istanze di accoglienza propugnata dagli intellettuali dell’Europa occidentale.
Cosa vogliono veramente ad Est?
Ancora oggi la gente dell’Europa orientale si aspetta prima di ogni altra cosa progresso economico, e una sincronizzazione rapida con gli standard occidentali. L’occidente, tuttavia, spesso chiede all’oriente quello che non potrà mai ricevere, quantomeno nel breve termine. Spesso lo iato economico esistente tra le due parti del continente si trasforma in uno iato comunicativo, ma basterebbe cambiare prospettiva per capire che l’atteggiamento dei paesi dell’Europa orientale non deriva soltanto da un presunto sottosviluppo culturale e politico, ma da condizioni storiche sedimentatesi nel tempo e difficili da modificare. Si guardi alla questione ambientale: mentre nelle grandi capitali dell’ovest dalla scorsa primavera si manifesta in difesa del pianeta, e in Italia da anni ormai si discute dell’annosa questione della TAV, nella Moldova romena si susseguono da mesi le dimostrazioni di abitanti esasperati dal cronico ritardo del governo nella costruzione di autostrade. Come ci si può aspettare una svolta green e una coscienza ambientale da paesi che ancora sperano di poter godere dei vantaggi di un’autostrada, da persone che per andare a far la spesa devono salire su un carro di legno trainato da un mulo? In politica vale lo stesso principio: come ci si può aspettare accoglienza e cosmopolitismo da persone cresciute nella cultura del sospetto che vedono partire milioni di connazionali, spesso per sempre? Se a Bruxelles vogliono veramente sconfiggere gli Orban, i Kaczynsky, i Babis, i Borissov, forse farebbero bene a rispondere a queste domande.
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