Entrate a braccetto nell’Unione il I gennaio 2007, Bulgaria e Romania son da allora fanalino di coda in quasi tutte le statistiche comunitarie. Al momento del loro ingresso, era chiaro a tutti come entrambi i paesi fossero privi dei requisiti minimi: economie solide, rispetto dello stato di diritto, separazione dei poteri ben definita. Le necessità geo-strategiche hanno prevalso su quelle politiche ed economiche, ma da 12 anni Bruxelles tiene gli occhi bene aperti sui membri più giovani della sua famiglia. Ben consapevole delle debolezze strutturali di Bucarest e Sofia, la Commissione europea ha istituito il cosiddetto “Meccanismo di Cooperazione e Verifica” (MCV), un organismo preposto all’analisi e al controllo dei progressi fatti da Romania e Bulgaria sulla strada della piena integrazione. Nello specifico, l’MCV si occupa di valutare i miglioramenti in termini di indipendenza del potere giudiziario, lotta alla corruzione e, nel caso bulgaro, contrasto al crimine organizzato. Ogni anno l’MCV pubblica un rapporto dettagliato; l’ultimo risale al novembre 2018. Gli studi dei tecnici europei raschiano la superficie dei problemi romeni e bulgari, ma costituiscono degli ottimi punti di partenza per capire realmente a che punto è il processo di integrazioni dei due stati. Lo studio incrociato dei due rapporti permette di fare delle analisi di più ampio respiro, che forniscano interpretazioni più originali rispetto ai tradizionali indicatori della corruzione percepita o dell’indipendenza della magistratura sull’ “europeizzazione” dei due vicini sud-orientali.
Il caso bulgaro
Secondo il report pubblicato nel novembre 2018, molto deve ancora essere fatto affinché il processo di verifica e controllo da parte della Commissione possa dirsi terminato, ma i progressi fatti registrare da Sofia sono innegabili, e più volte sottolineati dai redattori del rapporto. Miglioramenti sono stati riscontrati nel processo di selezione e nomina dei magistrati di alto rango e nell’inasprimento della legislazione contro il crimine organizzato. Da monitorare ancora nel medio periodo è la battaglia alla corruzione: sebbene dal 2018 esista un’agenzia centralizzata dedicata esclusivamente alla lotta alla corruzione, sulla falsariga di quanto avviene in Romania con la DNA (Directia Nationala Anti-Coruptie), si sottolinea come il suo funzionamento debba ancora essere perfezionato, e si paventano i rischi derivanti dal sistema di elezione dei suoi vertici. Il direttore della nuova agenzia viene infatti eletto dall’Assemblea Nazionale, e rischia quindi di essere espressione esclusiva di maggioranze parlamentari. Tuttavia, uno dei problemi più annosi che affligge la Bulgaria, la limitata libertà di stampa, viene citato soltanto brevemente all’inizio del rapporto. L’universo mediatico bulgaro è dominato da ambigui oligarchi con legami profondi nel mondo politico, come Delyan Peevski, addirittura deputato del Movimento per le libertà e i diritti, che controlla un piccolo impero di giornali e televisioni; negli ultimi anni sono stati numerosi i casi di voci libere censurate o di emittenti televisive addirittura chiuse. In un recente libro pubblicato da Ivan Dikov, ex redattore dell’agenzia di stampa Novinite, viene raccontato dettagliatamente l’emblematico caso della BiT (Bulgarian International Television). Nata nel 2016 su iniziativa dei fratelli Valnev, imprenditori trasferitisi a Chicago, BiT si è subito contraddistinta per una profonda attenzione alla politica, avendo il coraggio di affrontate temi considerati tabù, e attraendo personalità importanti come l’ex conduttrice della CNN Ralitsa Vasilleva. Spesso l’informazione dell’emittente si è contraddistinta per un atteggiamento molto critico verso il premier Boyko Borisov. Tuttavia, all’inizio del 2018, secondo quanto riporta Dikov, BiT è stava venduta ad un ambiguo produttore tv, Miroslav Yanev, e molti giornalisti, compresa la Vasilleva, sono stati allontanati. I dettagli della vendita sono ancora oggi del tutto sconosciuti, anche se le pressioni politiche dietro l’affare sembrano evidenti.
Il caso romeno
Il rapporto sulla Romania è, nel complesso, molto più pessimista di quello bulgaro; si rimprovera a Bucarest di essere tornati indietro in quel che concerne l’indipendenza del potere giudiziario e le nomine dell’alta magistratura. Le nuove leggi implementate dal governo romeno nonostante il parere negativo della Commissione di Venezia e la rimozione per motivi politici del procuratore capo della DNA hanno profondamente irritato i tecnici della Commissione, soprattutto a causa della totale indifferenza di Bucarest ai moniti di Bruxelles. Un’irritazione espressa chiaramente lo scorso gennaio quando la Romania ha assunto la presidenza di turno dell’Unione. Il paese si trova nel bel mezzo di una stagione di grossi cambiamenti politici, che potrebbero riportare il paese sulla strada maestra tracciata dalla commissione. L’arresto del leader del partito social-democratico (PSD) Liviu Dragnea, uno dei più importanti promotori dei cambiamenti legislativi volti a un indebolimento della magistratura, ha rallentato il processo di riforme tanto stigmatizzato dalla Commissione europea. Le elezioni presidenziali del prossimo autunno potrebbero poi segnare il definitivo crollo dei consensi del PSD; la sua candidata, Viorica Dancila, sembra non avere alcuna speranza contro il presidente uscente Klaus Iohannis, e contro Dan Barna, candidato moderato e convinto europeista: questi ultimi, con ogni probabilità si contenderanno la presidenza al ballottaggio. Sia Iohannis che Barna sono contrari alle leggi promosse dal PSD e auspicano una stretta collaborazione del paese con le istituzioni comunitarie.
Cosa ci dicono (o non ci dicono) i rapporti?
Dalla lettura sinottica dei due rapporti emerge come il principale problema in entrambi i paesi sia ancora la fragile separazione dei poteri e il controllo troppo stretto della politica sulla magistratura. Un problema che non riguarda soltanto Romania e Bulgaria, ma anche paesi come Polonia e Ungheria. E’ evidente che in tutta l’Europa orientale il principio di una magistratura indipendente non sia ancora ben radicato, e le motivazioni sono storiche. Il dominio comunista per 50 anni ha soggiogato i giudici ai voleri della politica, indebolendo quindi il loro spirito di corpo e la loro capacità di costituirsi come potere indipendente rispetto all’esecutivo. Non viene mai sottolineato abbastanza il ruolo giocato da magistrati e giuristi complici del potere politico nell’implementazione di leggi che minano le basi dello stato di diritto nei paesi dell’area; una connivenza che indica come il deficit di cultura istituzionale non sia appannaggio esclusivo di politici spregiudicati, ma anche di uomini del diritto che non riescono a liberarsi dai retaggi del passato. Nonostante il tono più pessimista del rapporto romeno, bisogna poi ricordare come la Bulgaria si trovi in una situazione ben più complessa del suo vicino settentrionale: oltre ad essere nettamente più piccolo da un punto di vista geografico e demografico, e meno ricco di risorse, Sofia si ritrova ad affrontare un problema sconosciuto a Bucarest: un crimine organizzato forte e ramificato. Anche in questo caso le motivazioni risiedono nel passato. Secondo il giornalista Slavi Angelov, mentre in Bulgaria i vecchi servizi segreti comunisti avevano – già durante il regime – organizzato e favorito reti criminali, per poi “privatizzarle” dopo il 1989, in Romania la vecchia polizia politica, la Securitate, ha schiacciato e annichilito qualsiasi potere operasse fuori dal sistema da lei controllato. I nuovi servizi segreti romeni hanno conservato la stessa struttura e lo stesso modus operandi del corrispettivo comunista, e la loro pervasività ha reso molto difficile la nascita di reti criminali organizzate con agganci nelle alte sfere politiche, come avviene invece in Bulgaria.
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