Il 7 aprile del 1971, due giovani ragazzi croati, Miro Barešić e Anđelko Brajković, entrano nella sede dell’ambasciata jugoslava a Stoccolma. Nonostante quella sia l’ambasciata del loro paese, la Jugoslavia appunto, i due ragazzi non sono lì per richiedere assistenza o il rilascio di un documento: sono entrati armati, e dopo essere penetrati all’interno dell’edificio arrivano fino all’ambasciatore Vladimir Rolović, che uccidono a colpi di pistola. Si tratta di un atto terroristico, uno dei tanti attacchi condotti negli anni ’60 e ’70 contro obiettivi legati alla Jugoslavia di Tito.
La galassia del terrorismo croato
Circa venti diplomatici e funzionari uccisi nelle loro missioni all’estero, quattro dirottamenti di aerei, almeno ottanta morti in totale, decine di attentati in giro per il mondo: questo è il bilancio di una vera e propria guerra, condotta dai nazionalisti e dagli anticomunisti, per lo più croati, contro la Jugoslavia socialista.
L’uccisione dell’ambasciatore Rolović a Stoccolma, difatti, non è che l’evento più eclatante di una scia di attentati organizzati in giro per il mondo da gruppi terroristici attivi soprattutto negli anni ’60 e ’70. Sigle come il Movimento Croato di Liberazione (HOP), la Fratellanza Rivoluzionaria Croata (HRB) o la Resistenza Nazionale Croata (HNO-Otpor) assursero alla ribalta per azioni violente e rocambolesche contro obiettivi jugoslavi.
Nonostante metodi diversi, queste organizzazioni erano difatti accomunate da un unico obiettivo: combattere con ogni mezzo per l’indipendenza della Croazia, liberandola dal “giogo” jugoslavo e riportandola ai presunti fasti dello Stato Indipendente di Croazia, lo stato fantoccio governato dal regime filonazista degli ustaša negli anni della Seconda guerra mondiale, macchiatosi di atroci crimini contro oppositori, ebrei e serbi. Proprio i superstiti di quel regime, fuggiti all’avvento dei partigiani titini, erano stati i fondatori delle organizzazioni nazionaliste, a cui, secondo le stime della CIA, si avvicinarono negli anni circa 3.000-5.000 estremisti croati in diversi paesi del mondo: si trattava spesso di giovani generazioni, figli della diaspora del dopoguerra, radicalizzati lontani dalla propria terra di origine.
Gli attentati in Jugoslavia
I primi grandi attentati organizzati dai nazionalisti croati avvennero in territorio jugoslavo. Il 13 luglio del 1968 una bomba esplose al cinema “20 Oktobar” di Belgrado, provocando una vittima e ben 85 feriti; poche settimane dopo, il 25 settembre, tre bombe colpirono la stazione ferroviaria della capitale jugoslava, causando 13 feriti. Il responsabile fu individuato dalle autorità in Miljenko Hrkać, membro del movimento nazionalista croato HOP, fondato dopo la guerra dallo stesso Ante Pavelić, leader degli ustaša fuggito in Spagna. Hrkać verrà poi arrestato e condannato a morte nel 1978.
Un altro tentativo di colpire il regime di Tito all’interno dei propri confini avvenne nel luglio del 1972. Un gruppo paramilitare costituito e addestrato in Germania Ovest dall’HRB, con fondi provenienti dalla diaspora croata in Australia, entrò in Jugoslavia con l’obiettivo di innescare una ribellione dei croati contro le autorità. La missione finì però tragicamente: a seguito di diversi scontri a fuoco, 18 membri del commando furono uccisi, e uno arrestato. Anche 13 soldati jugoslavi persero la vita nei combattimenti.
Le azioni all’estero
Ben presto, apparve chiaro ai terroristi che agire all’interno dei confini jugoslavi era una missione quasi impossibile. I gruppi si concentrarono perciò in azioni all’estero. Dopo alcune azioni minori, l’uccisione dell’ambasciatore in Svezia attirò l’attenzione del mondo. L’azione dei terroristi, in quel caso, aveva un obiettivo mirato: prima di divenire ambasciatore, difatti, il montenegrino Rolović era stato ai vertici dell’UDBA, i servizi segreti jugoslavi, nonché responsabile del campo di prigionia per i dissidenti del regime di Goli Otok. Proprio l’UDBA rappresentava il nemico numero uno del terrorismo croato, essendo impegnata nella ricerca e nell’eliminazione delle cellule nazionaliste in tutto il mondo, in una guerra senza esclusione di colpi.
Agli attacchi mirati, si sommarono presto azioni su larga scala. Il 26 gennaio 1972, una bomba esplose sul volo JAT 367 Stoccolma-Belgrado, causando 27 morti. L’unica sopravvissuta fu la hostess Vesna Vulović, in una storia che ha dell’incredibile. Ben presto, apparve chiaro che i responsabili erano terroristi croati.
Il 15 settembre dello stesso anno, un gruppo di terroristi dell’HNO dirottò il volo 130 della Scandinavian Airlines Goteborg-Stoccolma, richiedendo il rilascio degli arrestati per l’attentato all’ambasciata di Stoccolma. Lo scambio avvenne solo a metà, dato che una volta atterrati in Spagna i dirottatori trovarono la polizia ad aspettarli. E ancora, il 10 settembre 1976, un gruppo di nazionalisti croati dirottò il volo TWA 355 da New York a Chicago, un’avventura che finì con l’arresto di tutti i responsabili una volta atterrati a Parigi.
Il cacciatore di Tito
Tra i dirottamente aerei, uno in particolare ha delle caratteristiche peculiari. Nel 1979, l’aereo 727 New York-Chicago venne dirottato non da nazionalisti croati, ma dal serbo Nikola Kavaja, successivamente arrestato e condannato a 20 anni di prigione.
Kavaja è una figura unica: fervente anticomunista, fuggì dalla Jugoslavia nel 1953, e arrivato negli Stati Uniti tentò più volte di organizzare l’uccisione di Tito, forse dietro arruolamento della CIA. Tentativi mai portati a termine, ma che gli valsero il soprannome di “cacciatore di Tito”. Kavaja diventò poi membro del SOPO, il Movimento di Liberazione della Patria Serbia, un gruppo della diaspora anticomunista serba responsabile di una serie di attentati a consolati e uffici jugoslavi negli Stati Uniti. Kavaja uscì dal carcere nel 1997, quando tornò in Serbia e strinse legami con criminalità e gruppi nazionalisti e paramilitari locali, aggiungendo ulteriore alone di mistero ad una vicenda personale assolutamente controversa.
La guerra degli anni ‘90
Dagli anni ’80 in poi, le attività dei terroristi croati iniziarono a ridursi. Negli anni ’90, però, per molti di loro arrivò il momento della rivalsa: diversi esponenti di quegli stessi gruppi tornarono in patria, arruolandosi nella guerra che porterà alla nascita della Croazia democratica ed indipendente.
Tra questi, vi era anche Miro Barešić, l’assassino dell’ambasciatore a Stoccolma. Barešić, rientrato in patria alla fine degli anni ’80, morì in azione durante la guerra nel 1991, assurgendo a simbolo nazionale per i nazionalisti croati. Nel 2016 una sua statua venne eretta nel villaggio di Drage, nella contea di Zara, alla presenza di ministri e membri del parlamento croato, scatenando reazioni sdegnate da parte dei governi di Serbia e Montenegro.
Una dimostrazione, questa, di come ancora oggi la lettura di quei tragici eventi continua a dividere i paesi nati sulle ceneri di quella stessa Jugoslavia.
Foto: Novosti.rs