Da Ekaterinburg – “Il parco lo abbiamo difeso, ora vediamo cosa succede…”. Inizia così ogni conversazione inerente alle recenti proteste a Ekaterinburg che hanno politicamente acceso la quarta citta più grande della Russia. Balzate agli onori della cronaca a metà maggio, le proteste dei cittadini contro la costruzione di una cattedrale ortodossa in un parco lungo il fiume Iset’, in centro città, si sono lentamente esaurite con le autorità locali che dopo circa due mesi hanno dovuto cedere al comitato per la difesa del parco che ha vinto il sostegno di numerosi membri del consiglio comunale. Ma potrebbe essere solo una vittoria momentanea. Nuovi arresti e perquisizioni per i fatti dello scorso maggio hanno negli ultimi giorni colpito alcuni degli attivisti.
Nonostante il carattere limitato e locale delle proteste e la loro natura apparentemente non politica, il passo indietro delle autorità e la possibile nuova ondata di repressione può aiutare a comprendere un po’ meglio i rapporti tra centro e periferia e la complessità della struttura federale della Russia di oggi, troppo spesso offuscata dall’idea dell’assoluta verticalità del potere che risiederebbe, in ultima istanza, nelle mani di Putin.
La capitale degli Urali
Lontana oltre 1700 chilometri e a (sole) due ore di fuso orario da Mosca, Ekaterinburg è sospesa tra centro e periferia, tra Europa e Asia. Qui è finito – nel sangue – lo zarismo, con la ‘cattedrale sul sangue’ che oggi commemora il luogo dove fu giustiziata la famiglia Romanov. Qui negli anni della seconda guerra mondiale sono state spostate le principali industrie della Russia europea per difenderle, si fa per dire, dall’invasione nazista. Sempre qui, al confine tra Europa e Asia, si può trovare il vero esempio dei ruggenti anni novanta russi, quelli dei germogli della democrazia dopo il regime sovietico e quelli del crimine organizzato che ha dominato la vita del paese nel decennio della prima transizione post-comunista.
Boris Eltsin, al quale la citta ha di recente dedicato un museo celebrativo, è nato non lontano da qui, e proprio qui ha iniziato a costruire la sua carriera politica che da studente modesto e allenatore della locale squadra di volley lo avrebbe portato ad essere il primo presidente eletto della Russia che stava cercando di assumere le parvenze di un paese democratico. Sempre qui, però, gli anni novanta sono stati caratterizzati dall’influenza della criminalità organizzata capace di catturare non solo i gangli vitali della struttura economica regionale, ma anche quella politica. Uralmaš (Ural’skij zavod tjažëlogo mašinostroenija) a Ekaterinburg non è solo il nome con cui è comunemente noto l’immenso complesso industriale per la costruzione di macchinari formato qui negli anni dell’industrializzazione forzata, ma anche quello di una delle più grosse organizzazioni criminali della Russia contemporanea. Se a tutto questo aggiungiamo la breve ma importante esperienza della Repubblica degli Urali che nel caos degli anni novanta aveva dichiarato la propria indipendenza da Mosca, il quadro si fa ancora più complesso.
Ekaterinburg, in altre parole, non è una semplice città di provincia. Si sente, nello spirito e nella forma, l’ultimo baluardo europeo prima della steppa siberiana, la porta di accesso alla catena montuosa degli Urali, che separano tanto fisicamente quanto simbolicamente la parte europea da quella asiatica del paese.
Il parco, la cattedrale e l’autoritarismo
Tutti qui sanno che la cattedrale al centro della contesa era un ‘regalo’ alla città di due grossi costruttori locali, i quali in cambio del suo finanziamento avrebbe ricevuto terreni e permessi per la costruzione di un centro commerciale e di altri complessi abitativi. Un accordo tra le autorità regionali e i poteri economici locali che, come accade spesso, non avevano preso in considerazione le esigenze e l’opinione dei cittadini. Il confronto che andava avanti da mesi ha subito una brusca impennata quando, a metà maggio, il parco è stato recintato in previsione dell’inizio dei lavori. La mobilitazione dei cittadini e, dopo le prime ore di indecisione da parte delle autorità, gli scontri tra polizia e manifestanti che hanno portato all’arresto di un centinaio di persone, avevano segnato la fase più calda delle proteste, tanto da far intervenire lo stesso Putin come paciere.
In molti tra gli attivisti sono convinti che la decisione finale delle autorità di spostare la zona di costruzione della cattedrale sia stata resa possibile grazie ai più profondi contrasti all’interno dell’élite locale e il loro caotico appello ai vari emissari e rappresentanti più o meno influenti all’interno dell’amministrazione presidenziale.
Se il sindaco – Alexander Vysokinskij – si era schierato con i due magnati delle costruzioni che in cambio avrebbero promesso (si vocifera) il loro sostegno per la sua futura carriera politica, di parere diametralmente opposto era il governatore – Evgenij Kujvašev – che, dopo una lunga gavetta è pronto a spiccare il volo verso prestigiosi incarichi a livello federale. Proprio il governatore ha sin da subito sostenuto l’idea di spostare la zona di costruzione della cattedrale per evitare ogni scontro con gli attivisti che potesse macchiare la sua reputazione e curriculum.
Le proteste di Ekaterinburg, dimostrano però anche altre due cose, legate fra loro. Tutti i problemi che un regime autoritario può avere nel rispondere all’attivismo locale capace di auto-organizzarsi, e il ruolo della molteplicità di fazioni intorno a Putin, spesso in lotta tra di loro. Diverse fonti locali confermano, ad esempio, che nella battaglia tra sindaco e governatore un ruolo cruciale sia stato inizialmente giocato dal rappresentante del presidente per il distretto degli Urali, Nikolaj Tsukanov. Il suo messaggio sembra essere stato abbastanza chiaro: ‘le autorità hanno sempre ragione e hanno tutto il diritto di usare la forza’. Non è un segreto, infatti, che i rappresentanti del presidente (polpred) nei distretti federali in generale, e Tsukanov in particolare, possono contare su forti legami con la fazione militare e dei servizi segreti (siloviki) all’interno del Cremlino. La loro risposta ad ogni forma di dissenso è facilmente prevedibile: arresti e repressione. Il governatore a sua volta, uomo del potentissimo sindaco di Mosca, Sobjanin, è legato a doppio filo alla cosiddetta fazione ‘liberale’ che vede l’uso eccessivo della forza come controproducente per la stabilità del regime.
A Ekaterinburg pubblicamente sembrano aver vinto quest’ultimi, ma dopo che i riflettori si sono spenti il messaggio lanciato dalla fazione dei siloviki con la nuova ondata di perquisizioni e arresti sembra chiaro, quella degli attivisti sarà solo una vittoria temporanea e pagata a caro prezzo.
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Foto: Marina Moldavskaja