C’è qualcosa di nuovo, quest’anno, nelle celebrazioni che si terranno per ricordare il genocidio di Srebrenica. Sono passati ventiquattro anni, quasi un quarto di secolo, ma quest’anno c’è una sentenza a fare la differenza: quella con la quale, il marzo scorso, l’ex presidente serbo-bosniaco Radovan Karadzic è stato condannato all’ergastolo dal tribunale dell’Aja quale mandante politico di quel massacro. Per il resto il rito si ripeterà sempre uguale a se stesso, come è giusto che sia e come si conviene ai riti che meritano d’essere officiati: ci sarà la marcia della pace, la Mars Mira, alla sua quindicesima edizione con almeno seimila partecipanti attesi e ci sarà, soprattutto, la sepoltura di altre 33 persone per la quale è stato possibile riconoscere l’identità – il più giovane, Osman Cvrk, di sedici anni appena. Si aggiungeranno alle migliaia che già riposano al memoriale di Potocari, a due passi da Srebrenica, portando la cifra ad un totale di 6610, solo una parte delle 8500 vittime totali stimate.
Ma la sentenza Karadzic, quest’anno, fa la differenza e non tanto perché arriva alla conclusione del processo d’appello, ed è quindi definitiva, quanto perché ha comminato all’imputato la pena dell’ergastolo, dando la sensazione che, almeno per i mandanti, giustizia è fatta. Le 33 famiglie che piangeranno i propri cari, oggi, potranno consolarsi con questa consapevolezza, chissà mai che questo possa servire. La sentenza d’appello anche per il capo militare dei serbo-bosniaci ed esecutore materiale del genocidio, Ratko Mladic, è attesa per fine 2020.
Per il resto nulla di nuovo in Bosnia, ben lontana da qualsiasi processo di pacificazione o di qualcosa che abbia una minima parvenza di presa di coscienza collettiva dei fatti di inizio anni ’90: l’ha appena ricordato la Commissione europea che, nel suo giudizio sui progressi compiuti dal paese nel processo di adesione alla UE, ha evidenziato proprio nella mancanza del riconoscimento dell’eccidio di Srebrenica uno dei nodi irrisolti. E’ di queste ore, poi, la dichiarazione di Johannes Hahn, commissario UE all’allargamento, che ha esplicitamente affermato che non c’è posto nell’Unione europea per chi nega il genocidio di Srebrenica.
Ma ce lo ricorda, molto più concretamente, l’atteggiamento del presidente Milorad Dodik, per il quale Srebrenica “è la più grande impostura del XX secolo” – punta dell’iceberg di un negazionismo serpeggiante in gran parte della società serbo-bosniaca. E’ stato d’altra parte lo stesso Dodik, ormai un anno fa, a volere l’annullamento del Rapporto su Srebrenica del 2004, documento che rappresentava un primo riconoscimento ufficiale delle responsabilità serbo-bosniache in quel massacro. Ed ancora, si deve sempre a Dodik la recente nomina a capo di una nuova commissione di inchiesta su Srebrenica di uno storico, l’israeliano Gideon Greif, già noto per aver pubblicamente espresso dubbi sulla natura genocidiaria di quei fatti.
Intanto il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ha partecipato alla commemorazione tenutasi a Sarajevo martedì scorso, un segnale della vicinanza politica che la Turchia tiene a mostrare rispetto ai bosgnacchi – il cui primo presidente, Alija Izetbegovic, resta tra i punti di riferimento fondamentale per Erdogan.
Ventiquattro anni sono un tempo sufficientemente lungo per considerare che, in Europa, un’intera nuova generazione di cittadini sia nata dopo i fatti e che, soprattutto, di quei fatti sappia poco o nulla. Nell’Europa nazionalista e sovranista in cui si fa sempre più alta la voce di coloro che brandiscono presunte radici cristiane come un feticcio, e in cui è in atto un processo di disumanizzazione del diverso, le celebrazioni di questa ricorrenza potrebbero servire a ricordare che le vittime di quell’eccidio erano europee e musulmane.
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