Ennesimo colpo di teatro in Moldavia. Lo scorso 14 giugno il governo riconosciuto dalla corte costituzionale, guidato da Pavel Filip del partito democratico moldavo (PDM) si è clamorosamente dimesso, lasciando il monopolio del potere all’esecutivo rivale guidato da Maia Sandu, sostenuto dall’ambigua coalizione tra pro-europei e filorussi. Subito dopo le dimissioni di Filip e dei suoi, una serie di voli privati ha lasciato l’aeroporto di Chisinau per le più svariate destinazioni. Anche il controverso leader del PDM, l’oligarca Vladimir Plahotniuc, ha abbandonato il paese. In un post su Facebook questi ha dichiarato di temere per l’incolumità della sua famiglia. “In questo periodo la Moldavia non è un paese sicuro – ha dichiarato Plahotniuc – so i rischi che corro da quando mi sono opposto al processo di federalizzazione del paese. Pertanto capisco che la Moldavia non è più un posto sicuro per me, ma non sono un uomo che vive nella paura; andrò avanti e lotterò da lontano affinché il mio paese si liberi dall’occupazione straniera e i moldavi possano vivere liberi nella loro terra”. Dalle parole di Plahotniuc emerge il riferimento alla presunta ostilità russa nei suoi confronti, dovuta, secondo lui, all’opposizione al progetto di federalizzazione ma che più verosimilmente ha a che fare anche con i suoi ambigui affari che hanno scontentato non poche persone a Mosca.
Durissima la reazione della premier Maia Sandu di fronte alla fuga dei membri del partito democratico: “Non vivranno tranquilli da nessuna parte. […] E’ evidente che esiste il rischio di un loro ritorno in cerca della vendetta e della riconquista del potere, ma sarà molto difficile per loro; i cittadini hanno assaporato il gusto della libertà e noi non permetteremo a nessuno di fare quello che ha fatto Plahotniuc”. Quelle del primo ministro non sono parole vuote, slogan da dare in pasto all’opinione pubblica locale e internazionale. La premier ha infatti già chiesto le dimissioni dei membri della corte costituzionale che l’8 giugno avevano dichiarato illegittimo il suo esecutivo, e del procuratore generale Eduard Harinjen. In un tanto goffo quanto disperato tentativo di salvezza i giudici della corte costituzionale hanno risposto annullando le loro stesse decisioni e sancendo l’ormai totale legittimità del parlamento e del governo Sandu.
Ma cosa ha portato a questo ennesimo colpo di scena? In un’intervista rilasciata un paio di giorni fa a Radio Europa Libera l’analista Vladimir Kulminski, direttore dell’Istituto per le Iniziative Strategiche di Chisinau, aveva dichiarato che l’unico modo per evitare una guerra civile sarebbe stato offrire a Plahotniuc e ai suoi una exit strategy. Con ogni probabilità negli ultimi giorni è accaduto proprio questo: una negoziazione dietro le quinte tra il leader del PDM e il blocco di governo per abbandonare il paese senza subire ritorsioni immediate. Difficile credere, tuttavia, che Plahotniuc abbia rinunciato una volta per tutte all’enorme potere accumulato in questi anni. Più probabile che l’oligarca aspetti la (tutt’altro che impossibile) rottura della coalizione tra il blocco filoeuropeo della Sandu e i socialisti di Igor Dodon. Di fronte all’opposizione interna e a quella dei grandi attori internazionali, Plahotniuc ha ritenuto che la scelta migliore fosse quella di prendere tempo. Ma il suo apparato di potere e influenze, con profonde ramificazioni nel settore giudiziario e in quello dei media, è ancora vivo e attivo, pronto a mobilitarsi nuovamente al bisogno.
Di conseguenza, il compito più importante che si staglia dinnanzi all’attuale governo, sarà quello di smantellare il prima possibile il “sistema Plahotniuc”. Su questa falsa riga si pongono quindi le dichiarazioni incendiarie della Sandu subito dopo la fuga dell’oligarca. I filo-occidentali e i filo-russi dovranno mettere da parte almeno per un po’ le loro (notevoli) divergenze per ricostruire un sistema amministrativo libero dalle influenze di Plahotniuc, e il primo passo sarà una pulizia degli apparati giudiziari. Si tratterà un percorso lungo e ricco di ostacoli, e non è detto che la situazione non possa ancora una volta registrare clamorosi cambiamenti.
Articolo pubblicato in contemporanea anche su Osservatorio Balcani e Caucaso
Foto: b1.ro