Lo scorso 6 giugno Aung San Suu Kyi, consigliere di stato del Myanmar e Premio Nobel per la Pace, ha incontrato a Budapest il primo ministro ungherese Victor Orbàn nell’ambito di un breve tour europeo. Aung San Suu Kyi, a lungo considerata in Occidente una campionessa dei diritti umani e della democrazia contro la giunta militare birmana, ha espresso una forte vicinanza al governo ungherese sui temi dell’immigrazione: per la politica birmana il grande problema del Sudest Asiatico sarebbe lo stesso dell’Europa, ossia una massiccia immigrazione legata alla crescita dell’Islam che andrebbe contrastata con dure politiche repressive. Una convergenza, quella fra il nazionalista Orbàn e Aung San Suu Kyi, che potrebbe stupire, ma che risulta pienamente comprensibile a un’analisi più approfondita.
Una paladina dei diritti umani?
Aung San Suu Kyi sembra avere un curriculum di tutto rispetto come sincera democratica e attivista per i diritti umani. Nel 1988, in piena dittatura militare, fonda la Lega Nazionale per la Democrazia: un partito di orientamento democratico e di sinistra, affiliato all’Internazionale Socialista, che si oppone alla giunta militare e che trionfa nelle elezioni politiche birmane nel 1990. Ma la giunta militare al potere, che pure aveva concesso obtorto collo quelle consultazioni, le dichiara nulle e impedisce la formazione del governo. Aung San Suu Kyi riceve il Nobel per la Pace nel 1991, non potendolo però ritirare poiché agli arresti domiciliari. Resta in un regime di semilibertà fino al 2010 e nel 2012 riesce a ritirare il Nobel. Infine, nel 2015, la Lega Nazionale per la Democrazia ottiene una maggioranza schiacciante nelle elezioni politiche, le prime consultazioni libere dal 1962, anno del golpe militare, se si escludono quelle del 1990 annullate dalla giunta al potere.
Insomma, il curriculum di Aung San Suu Kyi non potrebbe essere più diverso da quello di Victor Orbàn. Socialdemocratica e attivista per i diritti umani la prima, nazionalista e autore di una forte involuzione in senso autoritario dell’apparato statale ungherese il secondo. Eppure le differenze si assottigliano se analizziamo le politiche portate avanti da Aung San Suu Kyi a partire dal 2015, anno di formazione del governo guidato dalla Lega Nazionale per la Democrazia, tra le quali spicca una dura repressione delle minoranze etniche presenti in Myanmar. Queste formano circa il 30% della popolazione totale del paese e spesso rivendicano a vari livelli una certa autonomia dal governo centrale. Le politiche di Aung San Suu Kyi in fatto di minoranze etniche non sono state diverse da quelle messe in atto dalla dittatura birmana, e sono state portate avanti da un esercito che di fatto è ancora quello della giunta militare.
La pulizia etnica contro i Rohingya
Le violenze sotto il governo di Aung San Suu Kyi si sono rivolte soprattutto contro la consistente minoranza Rohingya, di religione musulmana e stanziata in alcune delle zone più a ovest del paese, al confine con il Bangladesh. Nel 2017 un gruppo di indipendentisti Rohingya organizzati nell’Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa) ha attaccato un posto di polizia nello stato di Rakhine, forse in seguito a violenze perpetrate in alcuni villaggi da parte dell’esercito regolare. I militari, con l’approvazione del governo birmano, hanno messo in atto una serie di violenti rastrellamenti come rappresaglia per gli attacchi della guerriglia: è così cominciato un esodo della popolazione Rohingya verso il Bangladesh sotto la pressione dell’esercito birmano. Save the Children stima che quasi 800 mila profughi ad oggi risiedano in appositi campi subito oltre il confine birmano, in precarie condizioni igieniche e senza possibilità di muoversi liberamente nello stato che li ha accolti.
Un’intesa contro l’Islam
Il punto di convergenza tra Orbàn e Aung San Suu Kyi sembra essere proprio la questione religiosa e la propaganda ad essa legata. Il primo ministro ungherese mette in atto da tempo politiche contro gli immigrati, in particolare rifiutando di dare cibo e acqua ai richiedenti asilo al confine con la Serbia. Quasi tutti questi migranti provengono da Afghanistan, Pakistan, Iraq, Siria e sono in maggioranza di religione musulmana, esattamente come i Rohingya che l’esercito birmano ha cacciato dal paese a colpi di mortaio. Victor Orbàn e Aung San Suu Kyi stanno basando la costruzione di un consenso popolare attorno al proprio regime sulla definizione dell’identità – ungherese o birmana – in contrapposizione a un nemico esterno di religione musulmana: i due leader hanno sottoscritto una dichiarazione molto esplicita, dove leggiamo che “una delle maggiori sfide attuali per entrambi i paesi e le rispettive regioni – il sud-est asiatico e l’Europa – è la migrazione” e che “entrambe le regioni hanno visto emergere il problema della coesistenza con popolazioni musulmane in continua crescita”. Poco importa, a quanto pare, che i musulmani in Birmania siano solo il 5% della popolazione, mentre in Ungheria siano talmente pochi da non rientrare nemmeno nelle statistiche in materia di religione.
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