STORIA / 2: Vent’anni dopo, back in USSR

di Susanne Scholl

traduzione di Lorenza La Spada

L’Unione Sovietica di fronte a una prova decisiva

Nel febbraio 1991 l’Unione Sovietica sprofondò nella crisi. Proprio come sta accadendo negli Stati arabi in rivolta, tutti si chiedevano come sarebbe andata a finire.

Gli avversari, nel febbraio 1991, si chiamavano Boris Eltsin e Mikhail Gorbaciov. Eltsin, che all’incirca un anno prima aveva lasciato il partito comunista, veniva accusato da Gorbaciov di aver riportato il Paese alla dittatura e rifiutava di pagare al governo centrale una parte delle tasse dell’Unione Sovietica. Gorbaciov, da parte sua, si vedeva diffamato e veniva accusato da Eltsin di essere un bugiardo che agiva solo per ambizione personale.

Per difendere le proprie posizioni, sia Gorbaciov che Eltsin trascinarono centinaia di migliaia di persone in manifestazioni di massa per le strade di Mosca. In quell’occasione il leader sovietico accusò quello russo di non avere alcun argomento e quindi di scegliere il metodo più semplice – la piazza – per difendere le proprie posizioni.

E mentre il conflitto tra la Repubblica sovietica russa e il potere centrale si inaspriva sempre più, in Lituania si tenne un referendum per l’indipendenza della Repubblica baltica dall’Unione Sovietica, al quale naturalmente non poterono prendere parte i numerosi militari sovietici di stanza in Lituania.

Nel frattempo la situazione economica diventava sempre più precaria e il primo ministro Pavlov (completamente schierato dalla parte sovietica) scatenò il finimondo quando fece un nuovo rimpasto di governo e diede vita ad un nuovo esecutivo.

I sostenitori di Eltsin, che era stato definito “riformatore radicale” dalla stampa occidentale, parlavano di fallimento della perestrojka, cioè della ricostruzione. Eltsin chiese pubblicamente le dimissioni di Gorbaciov da presidente dell’Unione Sovietica e il disaccorpamento della Repubblica sovietica russa dal potere centrale, sia politicamente, che economicamente che militarmente. La sua rivendicazione di un’armata russa indipendente, che era stata espressa a gran voce in ogni occasione, condusse i vecchi generali sovietici in rivolta e finì con il prospettare scenari sempre più minacciosi.

Col senno di poi si può dire che gli sviluppi successivi in questo momento erano già tracciati. Quello che rende quegli avvenimenti ancora oggi degni di nota è la loro somiglianza con gli sviluppi di quel che è accaduto di recente in Tunisia, in Egitto e che prima o poi accadrà anche in Libia e in altri Stati del mondo arabo: una rabbia accumulata tra la popolazione, burocrati incapaci e incompetenti e un’élite politica che si aggrappa alla poltrona e non è disposta a cedere un palmo del proprio potere. E non è nemmeno in grado di riconoscere i segnali dei tempi e di realizzare delle riforme urgenti prima che la situazione divenga insostenibile per le persone, che avendo raggiunto il limite non possono fare altro che scendere in massa per le strade.

Prima parte

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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