“Non è un lavoro per donne”: le professioni proibite nell’ex Unione Sovietica

Dopo anni passati a studiare da ufficiale di rotta, con l’obiettivo finale di diventare capitano, nel 2012 Svetlana Medvedeva, abitante della città di Samara, aveva trovato il lavoro dei suoi sogni: una compagnia di navigazione privata l’aveva selezionata per essere al timone di un’imbarcazione commerciale. Pochi giorni dopo averle comunicato la buona notizia, la compagnia aveva però ritirato l’offerta di lavoro, spiegando a Svetlana che la sua assunzione come timoniere avrebbe infranto l’articolo 253 del Codice del lavoro della Federazione Russa e la normativa nazionale numero 162, che comprende una lista di professioni proibite (o soggette a restrizioni) per le donne. Svetlana Medvedeva era letteralmente caduta dalle nuvole: in molti le avevano detto che quello di timoniere era considerato un lavoro “da uomo”, ma nessuno l’aveva avvisata dell’esistenza di restrizioni legali che le avrebbero impedito, in quanto donna, di svolgere tale professione.

Dopo oltre quattro anni di battaglie legali portate avanti sia a livello nazionale che internazionale, nel febbraio 2016 il Comitato dell’Onu per l’eliminazione delle discriminazioni nei confronti delle donne ha riconosciuto che Svetlana Medvedeva era stata oggetto di discriminazione di genere. Secondo il Comitato, la legislazione russa le avrebbe vietato “di guadagnarsi da vivere attraverso la professione per cui aveva studiato”, nonché negato il diritto di “avere le stesse opportunità professionali degli uomini e la stessa libertà di scegliere il proprio lavoro”.

Quella di Svetlana Medvedeva è stata una vittoria giudiziaria storica su una forma di discriminazione nei confronti delle donne tanto radicata quanto sconosciuta al pubblico – non solo in Europa occidentale, ma anche in quei paesi dell’ex Unione Sovietica in cui le “liste delle professioni proibite” alle donne sono ancora una realtà.

Le liste delle professioni proibite

Le liste delle professioni proibite fecero la loro apparizione nel Codice del lavoro dell’Unione Sovietica già negli anni trenta e vennero in seguito aggiornate negli anni settanta. Dal 1991 in poi, dopo la fine dell’URSS, quasi tutte le repubbliche indipendenti adottarono dei nuovi codici del lavoro, copiandovi però queste norme. Come spiega Stefania Kulaeva, direttrice dell’Anti-Discrimination Centre (ADC) Memorial intervistata da Kiosk, l’idea che sta dietro a queste restrizioni risale all’epoca della rivoluzione industriale – un periodo in cui le condizioni di lavoro erano spesso estremamente nocive e pesanti per le donne, che lavoravano anche durante la gravidanza. I sindacati avevano quindi lottato per ottenere delle restrizioni sul lavoro femminile in situazioni di rischio per la salute riproduttiva.

“Da allora, però, – continua Stefania Kulaeva – sono cambiate le condizioni di lavoro, è cambiata la società e le idee legate ai ruoli di genere. Se cent’anni fa una donna sposata che lavorava in fabbrica poteva avere una gravidanza quasi una volta all’anno, oggi le donne possono avere una gravidanza una volta nella vita, o magari non vogliono affatto avere figli. Così questi divieti sono stati soppressi in molti paesi europei per una questione di inutilità, ma anche di ingiustizia. Nei paesi in cui sopravvivono, questi divieti sono fondati sulla pura discriminazione, che è racchiusa in primo luogo nell’idea che la donna debba fare figli, o che debba restare a casa per occuparsi dei figli dopo la gravidanza. Il progresso tecnico ha inoltre reso alcuni lavori, come la guida dei treni elettrici, molto meno pesanti rispetto al passato. Se queste norme avevano senso cento anni fa, ora sono solo discriminatorie. Oggi, quelli che si dicono contrari all’abolizione delle liste [delle professioni proibite] sono gli stessi che aggrediscono le manifestanti alle proteste dell’8 marzo, quelli che ritengono che le donne non siano predisposte al lavoro intellettuale”.

Per avere un’idea più concreta della discriminazione in atto, basta guardare i numeri: oggi in Kazakistan la lista delle “professioni proibite” include 219 lavori, mentre in Russia questi sono ben 456 (qui trovate i dati completi). Il Codice del lavoro russo stabilisce ad esempio che le donne non possano essere assunte per guidare camion o treni della metropolitana, spegnere incendi, lavorare nella produzione di strumenti musicali, o per fare lavori come quello di carpentiere, idraulico, o minatore. Vigono poi restrizioni assurde, come quella che vieta alle donne di guidare autobus che trasportano più di 15 passeggeri (se ne trasportano di meno, allora non c’è problema). A rendere il tutto ancora più discriminatorio è il fatto che molte delle professioni incluse nelle liste sono molto ben remunerate perché richiedono un alto livello di specializzazione – ad esempio le professioni del mare: secondo il Codice del lavoro russo, alle donne sono proibiti tutti i lavori sul ponte e in sala macchine.

Questa discriminazione nei confronti delle donne nel mondo del lavoro viene giustificata come una “preoccupazione per la loro salute riproduttiva”, ma in realtà (come dichiarato anche dal Comitato dell’ONU per l’eliminazione della discriminazione di genere nel caso di Svetlana Medvedeva) non c’è alcuna base scientifica che giustifichi l’esclusione delle donne da determinate professioni. Inoltre, tale preoccupazione sembra non valere nel caso degli uomini, anche se la loro salute riproduttiva potrebbe ugualmente essere messa a rischio da alcune professioni: alle donne non viene lasciata scelta, è lo stato a decidere per loro.

La campagna “All Jobs for All Women”

Dal 2012, l’organizzazione ADC Memorial (che ha sostenuto Svetlana Medvedeva nelle sue battaglie legali) si è prefissa l’obiettivo di cambiare la legislazione chiedendo l’abolizione delle liste delle professioni proibite non solo in Russia, ma in tutti i paesi post-sovietici in cui sussiste questo tipo di discriminazione: Ucraina, Bielorussia, i cinque paesi dell’Asia centrale, Azerbaigian e Moldavia.

Lanciata in collaborazione con le organizzazioni per i diritti delle donne di questi paesi, nel giro di un paio di anni la campagna “All Jobs for All Women” ha già raggiunto dei risultati considerevoli. Ad esempio, nel 2017 la lista delle professioni proibite è stata abolita completamente in Ucraina: alcune donne hanno anche già cominciato a lavorare come pompieri, anche se una sfida ancora da affrontare resta quella della sensibilizzazione e dell’informazione – sia tra i datori di lavoro, sia tra le donne lavoratrici. Più di recente, la lista delle professioni proibite è stata abolita anche in Uzbekistan.

In Russia, il caso di Svetlana Medvedeva ha costituito un importante precedente e sembra aver posto le basi per un progressivo cambiamento a livello legislativo, così come dell’atteggiamento delle élite economiche e politiche riguardo alla questione delle professioni proibite. Ad esempio, il comitato per i trasporti della Duma di stato russa si è recentemente espresso a favore dell’abolizione del divieto per le donne di lavorare nella metro come conducenti e macchiniste. Anche la società delle ferrovie dello stato russa e il sindacato dei lavoratori marittimi hanno criticato le liste delle professioni proibite.

Come riconosce la stessa Stefania Kulaeva, questa presa di posizione è forse più dettata da ragioni economiche (vietare alle donne di svolgere determinati lavori non è “conveniente” in molti settori) che non dal riconoscimento della discriminazione di genere in quanto tale. In ogni caso, si tratta di un’evoluzione positiva in un contesto in cui fino a pochi anni fa chi si occupava di tali problematiche era tacciato di “isteria femminista”, e in cui l’emancipazione della donna e la piena parità dei diritti – anche nel mondo del lavoro – sembrano ancora lontane.

Immagine: ADC Memorial

Chi è Laura Luciani

Nata a Civitanova Marche, è dottoranda in scienze politiche presso la Ghent University (Belgio), con una ricerca sulle politiche dell'Unione europea per la promozione dei diritti umani e il sostegno alla società civile nel Caucaso meridionale. Oltre a questi temi, si interessa di spazio post-sovietico in generale, di femminismo e questioni di genere, e a volte di politiche linguistiche. E' stata co-autrice del programma "Kiosk" di Radio Beckwith.

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