BOSNIA: La sentenza Karadzic, gli applausi e le lacrime

Gli applausi e le lacrime. Basterebbe solo questo per dare la misura di quanto emotivamente attesa fosse la sentenza d’appello del processo a Radovan Karadzic e di quanto fosse auspicata, desiderata, persino pretesa, una sua condanna all’ergastolo: ergastolo sarà, effettivamente, e la sentenza è definitiva.

A volte per raccontare un fatto è più efficace dire non tanto del fatto in sé, quanto dei suoi dintorni: e quei dintorni si incarnano, oggi, sotto forma di applausi e di lacrime.

Gli applausi sono quelli dei trecento rappresentanti della comunità accademica di Sarajevo che hanno seguito il processo dalla Vijecnica, la Biblioteca Nazionale a Sarajevo: i serbo bosniaci la presero a cannonate durante l’assedio della città, l’incendio che ne era seguito l’aveva ridotta ad una rovina fumante. Una scelta non casuale, quella degli accademici, uno dei capi d’accusa che gravavano sulla testa di Karadzic riguardava proprio l’assedio della capitale bosniaca: assedio di cui la distruzione della Vijecnica fu l’atto simbolo. Uno dei tanti di cui il processo a Karadzic sembra caricarsi.

Le lacrime, invece, sono quelle delle madri di Srebrenica. Una delegazione ha affrontato un viaggio di quasi duemila chilometri per assistere alla lettura della sentenza, le altre lo hanno fatto dal cimitero di Potocari, dove sono custoditi i resti dei propri mariti, dei propri figli. Si sono abbracciate per strada, infine, in un pianto liberatorio atteso da una vita.

Gli applausi e le lacrime rendono ragione di quanto la sentenza di primo grado fosse stata vissuta come una sconfitta, peggio, come un’ingiustizia: e questo malgrado l’imputato fosse stato riconosciuto colpevole di dieci degli undici capi d’accusa a suo carico e nonostante Karadzic fosse stato dichiarato un genocida per lo scempio perpetrato a Srebrenica.

Non bastava: troppo pochi 40 anni per tutto quel male. Quel verdetto era “doloroso”, “vergogno”, “tristissimo”.

Formalmente la sentenza d’appello non cambia nulla rispetto a quanto già proclamato in primo grado: resta il riconoscimento di colpevolezza per tutti i capi d’accusa per i quali Karadzic era già stato condannato. Resta il riconoscimento dei reati contro l’umanità, restano i crimini di guerra. Resta, anche, la responsabilità di aver inflitto indicibili sofferenze alla popolazione di Sarajevo, assediata per quattro anni. E, come col primo grado, manca il suggello formale dell’etichetta di “genocidio” per quanto avvenuto nelle sette municipalità. A Bratunac, Foca, Kljuc, Prijedor, Sanski Most, Vlasenica e Zvornik si perpetrarono “solo” reati contro l’umanità, ma senza un comprovato intento genocida. Questo perlomeno a giudizio del tribunale: la storia, dati demografici alla mano, sembra pensarla diversamente. Ma tant’è.

A cambiare, però, è l’entità della condanna: ergastolo. Ergastolo come unica condanna possibile, ergastolo a sanare “l’inadeguatezza” del responso di primo grado, come ha ammesso il giudice danese, Vagn Prüsse Joensen, leggendo il verdetto. E ancora, ergastolo come “messaggio che la giustizia alla fine prevale sul diavolo”, nell’enfasi un po’ retorica del pubblico ministero, Serge Brammertz.

Insomma non cambia nulla ma cambia tutto. Perché insieme all’entità della condanna cambia, anche, la percezione che le parti offese hanno dell’operato del tribunale e, in definitiva, della giustizia internazionale che si è fatta carico di tutta questa storia. C’è una percezione di giustizia, ora, come se le cose fossero state, infine, riconosciute per quello che erano: ventiquattro anni dopo Srebrenica e undici anni dopo la cattura di Karadzic, “giustizia è stata fatta”.

Non un dettaglio, quello della percezione. E a dirlo sono quegli applausi, a raccontarlo al di là di ogni ragionevole dubbio sono quelle lacrime.

Di fronte a ciò, tutto il resto è poco più che corollario, almeno per un giorno: lo è la reazione amareggiata del condannato, lo sono le dichiarazioni stizzite di Milorad Dodik, rappresentante serbo della presidenza della Bosnia Erzegovina, che si è affrettato a bollare come “selettiva” la giustizia proclamata all’Aja. Dichiarazioni che restano ingabbiate nella logica della contrapposizione delle parti e che testimoniano quanto poco sia stato fatto lungo il percorso d’acquizione della consapevolezza delle proprie responsabilità storiche: da una parte e dall’altra, va detto.

Tra i detrattori della sentenza di mercoledì scorso c’è, infatti, proprio chi argomenta che essa renderebbe più difficile il processo di riconciliazione. Come se tale compito fosse demandato ai tribunali e non alla politica. Politica che, dal canto suo, è invece sempre più incanalata nell’alveo di quella narrazione ultra-nazionalistica così in voga in gran parte dell’est europeo e non solo. E in questa deriva sono enormi le responsabilità di molti intellettuali, dei ricercatori, di chi opera nella cultura, colpevoli di un’inerzia che non ha giustificazione.

Dopo che fu data alle fiamme, la Vijecnica bruciò per giorni e per giorni su Sarajevo piovve la fuliggine nerastra del milione e mezzo di libri andati in fumo. Ma, anche se solo per oggi, sarebbe bello poter pensare che la sentenza Karadzic abbia dato un senso ancora più profondo al gesto di Fahruddin Cebo, il poliziotto musulmano che, sottrasse alle fiamme la Haggadah ebraica del XV secolo. Come se quel gesto e quella sentenza, insieme, potessero dimostrare che alla fine Karadzic ha perso non solo perché passerà il resto dei suoi anni in prigione ma, soprattutto, perché è stato il tragico promotore di un’istanza sconfitta dalla storia.

Si diceva dell’importanza della percezione: vero è che per l’ultrasettantenne Karadzic poco cambia tra una sentenza di 40 anni e una all’ergastolo poiché le possibilità di vederlo fuori, a fine pena, erano comunque statisticamente residuali, se così vogliamo dire. Ma l’intensità di quegli applausi e il fragore di quelle lacrime sono, anche, la personale ribellione alla statistica di quelle donne e di quegli uomini .

Chi è Pietro Aleotti

Milanese per caso, errabondo per natura, è attualmente basato in Kazakhstan. Svariati articoli su temi ambientali, pubblicati in tutto il mondo. Collabora con East Journal da Ottobre 2018 per la redazione Balcani ma di Balcani ha scritto anche per Limes, l’Espresso e Left. E’ anche autore per il teatro: il suo monologo “Bosnia e il rinoceronte di pezza” ha vinto il premio l’Edizione 2018 ed è arrivato secondo alla XVI edizione del Premio Letterario Internazionale Lago Gerundo. Nel 2019 il suo racconto "La colazione di Alima" è stato finalista e menzione speciale al "Premio Internazionale Quasimodo". Nel 2021 il racconto "Resta, Alima - il racconto di un anno" è stato menzione di merito al Premio Internazionale Michelangelo Buonarroti.

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Un commento

  1. claudio gherardini

    Questa caricatura di uomo trasformatasi in macellaro umano era pronto alla sentenza e sembra abbia affermato che comunque ha vinto lui perché la Republika Srpska è nata e vive prospera. Lui può anche morire, per questa “vendetta inutile” che sarebbe la sentenza. Peccato che Milosevic sia morto.

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