Da BELGRADO – Il motto della Serbia – rappresentato dalle quattro “S” – recita Samo sloga srbina spašava ed è traducibile come “solo la concordia salva il serbo”. Niente di più vero. I serbi sono un popolo altamente diviso e divisivo. In generale, si potrebbe dire che esistono due Serbie l’una in conflitto con l’altra – quasi a dare un senso alle due teste dell’aquila dello stemma del paese.
Lo si è visto anche nelle ultime 48 ore. Mercoledì 16 gennaio l’opposizione ha portato in piazza diverse decine di migliaia di persone per ricordare Oliver Ivanovic, politico serbo-kosovaro, di cui ricorreva il primo anniversario dall’omicidio. L’indomani, circa centomila persone convocate a gran voce dal Partito Progressista Serbo del presidente Aleksandar Vucic sono arrivate da tutto il paese per salutare e omaggiare il presidente russo Vladimir Putin.
Due manifestazioni di carattere civile, ma dal retrogusto esclusivamente politico; un unico percorso per entrambe, dall’università al tempio ortodosso di San Sava; e due diversi volti per un paese sempre più in bilico tra Bruxelles e Mosca.
La Serbia scesa in piazza mercoledì è quella che da ormai sette settimane protesta contro il clima di violenza politica e per un maggior pluralismo mediatico con lo slogan “1 di 5 milioni” – riprendendo la frase di Vucic che disse che non ascolterebbe le richieste dei manifestanti nemmeno se fossero in cinque milioni – oltre che nas je ipak više (“noi siamo comunque di più”), citazione di Ivanovic; la folla giunta per Putin, invece, è lo zoccolo duro su cui il presidente serbo potrà sempre contare, pensionati e dipendenti pubblici a cui, come molti denunciano, sarebbero giunte anche minacce di licenziamento.
Ed è il rapporto tra queste due Serbie a definire il carattere schizofrenico del paese. La prima denuncia la seconda di essersi venduta per la promessa di un panino e dell’autobus gratuito – che ieri hanno intasato il traffico della capitale; mentre la Serbia dei sostenitori di Vucic accusa l’opposizione di tradimento – secondo un vecchio adagio sempre popolare nel paese verso coloro che protestano contro i vari governi – e di voler ripristinare quella leadership democratica, ormai sfaldata e riunita dalla piattaforma partitica “Alleanza per la Serbia”, accusata di aver svenduto il paese.
Il contrasto è reso ancor più marcato dai mezzi e dagli slogan. Al corteo di ieri è comparso lo striscione “1 di 300 milioni”, quanti sarebbero gli abitanti di Russia e Serbia insieme (in realtà molti di meno), scimmiottando il motto usato dall’opposizione, che a sua volta attacca il governo di controllare tutti i mezzi di informazione, che dall’inizio delle proteste non riportano correttamente i numeri dei cortei, sminuiti a poche migliaia di manifestanti, anche se mercoledì erano quasi centomila.
Eppure, queste due Serbie si accavallano su più ideologie. Nell’alleanza dell’opposizione, insieme ai vecchi democratici e partiti di sinistra, partecipano nazionalisti e filorussi, come il movimento Dveri, mentre la folla che aspettava Putin è di fatto veicolata dal presidente Vucic, il cui obiettivo primario rimane l’integrazione nell’Unione Europea, tradito solo da questo sempiterno amore fraterno con la Russia. D’altronde, Vucic è abile a sfruttare per fini propagandistici la vecchia retorica della fratellanza con la Russia – che oltre alla ristrutturazione del tempio di San Sava consiste nella fortissima dipendenza energetica – ma a cui si ispira, probabilmente, per il modello autocratico con cui è governata da Putin.
Ad oscillare nel limbo dell’incognito e tra le faglie di questo popolo diviso, il Kosovo. Il bagno di folla per Putin è tutto qui: il non bombardamento di vent’anni fa, il non riconoscimento di Pristina e il sostegno alla sovranità di Belgrado. Per dover di cronaca va anche detto che Putin ha consegnato a Vucic l’onoreficienza dell’ordine di Aleksandar Nevski.
Dall’altro lato, il Kosovo è una questione che l’opposizione sfrutta a corrente alterna: prima per denunciare il governo di averlo tradito con i piani di divisione della scorsa estate proposti da Vucic e il presidente kosovaro Hashim Thaci; ma anche come capitolo da chiudere in fretta, pena il regresso continuo della Serbia.
Due anime in costante conflitto e tensione, dove gli obiettivi di politica estera sembrano a tratti univoci, e la differenza sta principalmente nella politica interna, delineata da un saggio controllo della stampa.
Alla vigilia della marcia in ricordo di Oliver Ivanovic, nonché per l’anniversario del suo assassinio, i quattro principali quotidiani serbi dedicavano la prima pagina alle foto dei seni e della vagina di Jelena Karleusa, una cantante folk coinvolta in un affare di gossip. C’era da tenere i cittadini distratti e impegnati. O comunque provare a non farli partecipare alla marcia di protesta.
Alla tristezza di un apparato mediatico così manipolato e corrotto, si accompagna però la sensazione che, per la prima volta, il presidente Vucic sembra temere l’opposizione, nonché la sua rinata capacità di portare in piazza migliaia di persone. Secondo diverse speculazioni, si potrebbe andare ad altre elezioni anticipate nel giro di due mesi. La sbronza e i panini promessi alla folla filorussa hanno quindi principalmente obiettivi di politica interna. D’altronde, a differenza della controparte serba, l’amico Putin è un autocrate serio: “Non sono qui per il meeting, ma per parlare degli accordi economici” – una ventina quelli firmati ieri, di carattere per lo più commerciale ed energetico. Ma come scontentare le migliaia di serbi che per ore hanno atteso in piedi sul fango davanti al più grande tempio ortodosso della regione per ascoltare qualche parola del loro fratello salvatore?
“Sua santità, se potesse chiedere al presidente Putin di rivolgere al popolo tre frasi, sarebbe fantastico”, ha bisbigliato Vucic al patriarca ortodosso Irinej chiedendogli di far da intercessore. Da tre frasi a tre parole: “Grazie per l’amicizia”, ha detto in serbo Putin. La folla giunta per Vucic-Putin esulta, lascia il plateatico del tempio e torna con l’autobus lontano da Belgrado. Campo libero all’opposizione, che domani torna in strada per il settimo sabato consecutivo. Quest’atmosfera schizofrenica ricorda molto il periodo di manifestazioni che disarcionarono Milosevic nel 2000. Chissà chi prevarrà, se il timore di Vucic o le speranze dell’opposizione.