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Il 16 gennaio 1969 era un giorno freddo. A Praga l’inverno sa essere molto rigido. Lo studente di filosofia Jan Palach si preparò con calma, quel pomeriggio. La determinazione dei suoi vent’anni, sarebbero stati 21 l’11 agosto, gli permise di riempire una sacca a tracolla con i suoi quaderni, debordanti di articoli, pensieri e dichiarazioni, e di prendere con sé una tanica di benzina.
Giunto di fronte al Museo Nazionale in Piazza Venceslao, quello che gli occupanti avevano trivellato di colpi nell’agosto dell’anno prima, posò a terra la sua sacca. Poi prese mentalmente le misure, le fiamme non avrebbero dovuto toccare i suoi preziosi appunti, si spostò a sufficienza, si cosparse di combustibile e si diede fuoco.
La sua agonia durò tre lunghi giorni. In ospedale confidò ai medici di avere preso a modello i monaci buddisti del Vietnam del Sud che, nel 1963, protestarono in quel modo contro le discriminazioni inflitte dal presidente cattolico. Fra i suoi scritti si lesse: «Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l’onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana». Poche settimane dopo altri giovani seguirono il suo esempio, ma ebbero molta meno risonanza mediatica perché il governo si impegnò a soffocare la diffusione di determinate notizie.
In effetti il suicidio di Jan Palach aveva procurato un’enorme commozione in tutto il paese. Il 25 gennaio ai funerali avevano partecipato centinaia di migliaia di persone, certo per rendere omaggio al giovane compatriota, ma anche per prendere una chiara posizione politica di fronte ai propri governanti e alla dirigenza sovietica.
Alexander Dubček, in quei giorni ricoverato all’ospedale a Bratislava per una virulenta influenza, fu molto colpito dall’estremo sacrificio del giovane. Tutto si stava sgretolando intorno a lui e le “torce umane” che cercavano drammaticamente di illuminare le coscienze glielo sottolineavano nel modo più duro e cruento possibile.
Poco prima del 16 gennaio, il presidente del Parlamento Smrkovský, fra i più fedeli sostenitori di Dubček, era stato costretto alle dimissioni, segnando un ulteriore passo verso la perdita di sovranità e autonomia della Cecoslovacchia. Intanto gli animi rimanevano accesi.
In marzo, a Stoccolma, si tennero i campionati mondiali di hockey su ghiaccio, sport nazionale cecoslovacco. Il 21 marzo vi fu la prima partita fra Cecoslovacchia e Unione Sovietica: in campo si percepiva molto di più della rivalità sportiva e, quando i primi vinsero, tutto il paese scese in strada a celebrare la propria rivalsa nazionale. Le cose furono un po’ più complesse una settimana dopo quando la Cecoslovacchia vinse la finale, sempre contro i sovietici, con un sofferto 4 a 3. Gi animi erano sovraeccitati e i servizi segreti non si lasciarono sfuggire l’occasione. Alcuni poliziotti, travestiti da operai, misero diverse pietre da pavimentazione di fronte alla sede della compagnia aerea sovietica, l’Aeroflot. Quando i praghesi scesero in piazza, alcuni di loro iniziarono a lanciare le pietre contro le vetrine degli uffici e in molti li imitarono. Non successe nulla di più, ma quest’episodio servì a scatenare altri scontri che si protrassero nei giorni successivi. Il 31 marzo, senza alcun preavviso, giunse a Praga il maresciallo Grečko che minacciò l’uso delle armi contro i provocatori e ribadì la doppia necessità di reintrodurre la censura e soffocare la “controrivoluzione”. Dubček incassò l’ennesima provocazione, ma comprese, in quel preciso momento, di aver esaurito forze e strumenti per far fronte allo stra-potere sovietico. Decise quindi di rassegnare le proprie dimissioni.
Lo comunicò durante la riunione di presidenza del Comitato centrale, il 17 aprile, nella consapevolezza che suo successore sarebbe stato Husák, fedele a Mosca e contrario alle riforme, al quale chiese, in extremis e senza alcuna speranza, di non tradire il Programma d’azione. Gli fu offerta la presidenza del Parlamento, che accettò solo per avere ancora un minimo di voce in capitolo.
Con Husák fu dato il via ai licenziamenti dei giornalisti scomodi, furono chiusi vari giornali, si ebbero arresti e destituzioni di segretari regionali noti per essere favorevoli alle riforme, le espulsioni dal Partito colpirono mezzo milione di persone. Ad agosto, in concomitanza con l’anniversario dell’invasione, in trenta città si organizzarono manifestazioni di protesta, tutte represse da 35.000 fra soldati e poliziotti. Almeno cinque persone persero la vita, fra cui una di soli 15 anni. Husák approfittò dei disordini, sobillati dai militari, per far approvare la cosiddetta “legge del manganello” sulla repressione, anche se non riuscì a far instaurare, come avrebbe auspicato, la legge marziale. Dubček, errore di cui si sarebbe pentito fino alla morte, pose la sua firma in calce alla legge. A metà settembre fu estromesso dalla carica di Presidente del Parlamento ed espulso dal Comitato centrale. Forse per motivi tattici o perché Husák non si sentiva ancora abbastanza forte, gli risparmiò l’espulsione dal Partito e lo mandò come ambasciatore ad Ankara. Fin da subito Dubček fiutò in quella decisione un tranello, una mossa per non farlo più tornare in patria, ma, sostenuto anche dalla moglie, non si oppose. I due coniugi giunsero in Turchia nel gennaio del 1970 e furono accolti con grande calore, sia dalle autorità sia dai cittadini. Verso maggio Dubček ebbe però conferma dei suoi sospetti: da Praga tramavano per imporgli un esilio perpetuo. Molti paesi gli offrirono asilo politico, ma lui era determinato a tornare a casa. Dopo alcuni tentativi di comprare un biglietto aereo per Praga, riuscì a trovarne uno per Budapest. Partì da solo, la moglie lo raggiunse con difficoltà un mese dopo, e, come mise piede a Praga, gli fu comunicata l’espulsione dal Partito.
Cominciò per lui e per la sua famiglia il periodo più duro. Nel dicembre 1970 trovò lavoro come meccanico nell’Azienda forestale della Slovacchia occidentale nei pressi di Bratislava, dove rimase fino alla pensione. In quello stesso periodo iniziò a essere costantemente pedinato, sia in auto sia a piedi, la sua casa fu riempita di cimici, rimase isolato, praticamente relegato in Slovacchia. La situazione era drammatica, ma non mancarono episodi divertenti, quanto surreali.
Un giorno andò a trovarlo nella sua casetta in campagna Václav Slavík, un vecchio amico dissidente. Per poter parlare tranquillamente decisero di fare un bagno nel vicino laghetto. Gli agenti, molto infastiditi, presero in fretta alcune barche e si misero a remare forsennatamente per non perdere alcuna parola. Uno di loro, stanco di quella situazione, a un certo punto urlò «Per quanto pensate di restare, ancora?». Dubček rispose senza scomporsi: «Sicuramente resisteremo più a lungo di voi!».
E non si sbagliò. A distanza di vent’anni vinsero quanti, come lui, seppero resistere più a lungo.
FOTO: AFP Photo/Michal Cizek)
Ricordo come se fosse oggi, quel mio coetaneo ed il suo sacrificio, con forte emozione. Mentre la mia generazione a quel tempo veniva “conformizzata” ad una cultura straniera ed importata, come è stato il decantato 68, a Praga i giovani come me, nutrivano sentimenti e programmi, che da noi stavano lentamente sparendo dalla nostra cultura. Grazie per questo articolo