Tereza Boučková
La corsa indiana
Traduzione dal ceco di Laura Angeloni
Miraggi edizioni, Torino 2017
Ed. orig. 2007
pp. 186, euro 17.00
Figlia di un padre ingombrante quanto fondamentale sia per sé sia per la storia recente della Cecoslovacchia, lo scrittore Pavel Kohout, Tereza Boučková ripercorre la propria vita delineando un’autobiografia ricca di autoironia e graffiante sarcasmo, in cui compaiono, sotto pseudonimi divertenti e irriverenti, non solo tutti i membri della sua famiglia, ma anche alcuni dei protagonisti della storia del suo paese dagli anni sessanta ai primi anni ottanta.
Kohout, scrittore e autore di teatro, in piena Primavera di Praga aveva redatto un documento di solidarietà a Dubček, uscito il 26 luglio su «Literární listy» in edizione straordinaria, e sottoscritto da centinaia di cittadini. Nove anni dopo, insieme a Václav Havel era stato tra i firmatari di Charta 77 e questa aperta presa di posizione, in piena normalizzazione, era stata la causa del suo esilio in Austria.
Ma Kohout, che nel romanzo ottiene il nome di Indiano, è un padre assente, ribelle e pasticcione già da prima, fin dai tempi della Primavera e in mezzo ai carri armati sovietici dell’agosto del 1968. E, non per nulla, quando la figlia gli sottoporrà il manoscritto del romanzo, lui replicherà tangibilmente piccato, augurandosi una revisione radicale del testo.
Così non fu e fu sicuramente un bene non solo per i lettori, ma forse anche al fine di una riconciliazione tardiva, ma fondata su una sfacciata chiarezza, tra padre e figlia.
Il romanzo si dipana dall’infanzia alla maturità della protagonista, attraverso una serie di peripezie, spesso drammatiche e dolorose, ma sempre delineate con quel tratto sospeso tra sovrabbondante ironia e un pizzico di surrealismo che caratterizza la maggior parte della letteratura ceca, da Hašek a Hrabal.
La vita per la figlia più piccola di Kohout, che scrive in prima persona e si sente da sempre più un errore di percorso che un piccolo essere desiderato al pari dei fratelli maggiori, non è sicuramente facile. La condizione paterna di dissidente prima e poi anche di esule ricade pesantemente su di lei, esclusa dall’Università a destinata a lavori umili e precari quanto la sua stessa esistenza. Neanche la maturità e l’amore le portano la serenità tanto attesa perché inizia per lei un valzer doloroso, Valzer è anche il soprannome del suo secondo marito, di gravidanze interrotte, sognate, immaginate cui si sostituisce, a un certo punto, l’iter per l’adozione. Quando finalmente ottiene l’affidamento definitivo di Dárek, dono in ceco, la sua vita si muta in una gravidanza simulata, in una simbiosi funzionale a esorcizzare la sua intima paura: che il bambino possa scomparire.
E per porre fine anche a quella paura adotta un secondo bambino: Párek, coppia, che fa rima con il fratello e che con lui costituisce un tutt’uno.
Ci sarà un lieto fine in questa narrazione, che salderà l’esito positivo e pacifico della Rivoluzione di velluto al compimento del sogno della protagonista. Un sogno temperato dalla consapevolezza che nulla nella vita ha il solo sapore della dolcezza. Così, infatti, rimuginava già a metà romanzo: «Vivevo con la convinzione che un figlio fosse la felicità. Ma un figlio è una responsabilità. Una responsabilità per il mondo intero».
Chiudono il bel volume due raccolte di racconti sempre della scrittrice, La quaglia e Quando ami un uomo, anch’essi sospesi tra autobiografia, riferimenti storici e vivace invenzione narrativa.