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ROMANIA: Un paese nazional-comunista alla presidenza dell’Unione

A partire dall’1 gennaio 2019 la Romania ha assunto la presidenza del Consiglio dell’Unione Europea; in questi sei mesi, i rappresentanti romeni a Bruxelles si ritroveranno a gestire dossier scottanti (Brexit su tutti) e le elezioni europee. Jean Claude Juncker ha aspramente criticato i governi di Bucarest, giudicando il paese inadatto a reggere la presidenza di turno del consiglio. I motivi di una presa di posizione così netta sono ormai risaputi: una pubblica amministrazione dilaniata dalla corruzione, un governo dominato da personaggi dalla fedina penale tutt’altro che immacolata, un panorama infrastrutturale semi-disastroso.

Un caso più unico che raro

La Romania del 2019 è sicuramente un unicum nel panorama europeo. Paese semi-sconosciuto a occidente se non per vampiresche reminiscenze e una massiccia immigrazione nei centri più sviluppati del continente, la Romania racchiude al suo interno tutte le contraddizioni dell’est europeo; transizione post-comunista irrisolta, nazionalismo onnipresente, corruzione, volontà di modernizzazione, contrasto tra caratteristiche autoctone e occidentalizzazione.

La politica romena è, in occidente, ancor più indecifrabile. Gli attuali governanti romeni, meno rumorosi dei loro colleghi ungheresi o polacchi, portano avanti politiche non meno “populiste” che, tuttavia, hanno radici diverse da quelle degli esecutivi di Budapest o Varsavia. Si può a ragione affermare che in Romania il comunismo non sia mai morto, ma si sia soltanto camaleonticamente trasformato e raffinato, adattandosi alle esigenze dei tempi, per conservare potere e sfere di influenza.

Finire in coma nel 1989

A dicembre sono stati celebrati i 29 anni dalla rivoluzione che ha rovesciato il governo dispotico di Nicolae Ceausescu e della moglie Elena, decretandone al contempo la morte. Se un romeno medio finito in coma nel 1989 si svegliasse oggi e guardasse soltanto agli indicatori macro-economici, vedrebbe chiaramente la transizione dal comunismo al capitalismo come un fatto ormai compiuto, irreversibile. Tuttavia, gli basterebbe qualche giorno per ritrovare segni familiari, per riascoltare parole a cui era abituato, per decifrare una politica non diversa da quella che aveva imparato a conoscere negli anni ’80. Vedrebbe sicuramente volti nuovi e sigle sconosciute, ma dietro questi nuovi contenitori, dietro queste facce mai viste, riconoscerebbe presto la “sua” Romania comunista.

Il nostro romeno “redivivo”, che per comodità chiameremo Ovidiu, si era assopito nel 1989 ascoltando Ceausescu spronare i cittadini a tirare la cinghia, a soffrire ancora un po’ perché il debito stava finalmente per essere pagato, e la Romania avrebbe potuto finalmente cominciare il suo impetuoso sviluppo. Estinguere il debito era fondamentale per l’indipendenza del paese dai poteri occulti occidentali e non, che usavano l’arma economica per schiavizzare i romeni e costringerli a uno stato di perenne arretratezza. Grazie al partito comunista e al suo fiero leader, la Romania si sarebbe ripresa il posto che le spettava nel consesso internazionale, riottenendo finalmente voce in capitolo nei grandi affari internazionali. Per raggiungere questo obiettivo, i romeni dovevano dare prova di patriottismo e resistere di fronte alle difficoltà materiali.

Risvegliarsi trent’anni dopo, cos’è cambiato?

Ovidiu era già in coma quando nel dicembre 1989 Ceausescu venne arrestato e ucciso; dormiva profondamente negli anni ’90 politicamente monopolizzati da Iliescu, e non ha mai avuto l’onore di apprezzare Traian Basescu. Ovidiu si è svegliato nel dicembre 2018, e domenica 16, guardando la televisione nazionale, ha visto qualcosa di nuovo, ma non troppo. La tv trasmetteva una riunione plenaria di partito, come spesso faceva anche negli anni ’80, ma la sigla che troneggiava sul pulpito dell’oratore non era più PCR (partito comunista romeno), bensì PSD (partito social-democratico), e il leader che parlava di fronte alla folla osannante non era “il più amato figlio del popolo”, ma un uomo brizzolato, senza cravatta, con un baffo che lo rende vagamente somigliante al gestore di un bar costiero sudamericano. Il nostro Ovidiu è all’inizio sconcertato: che ne è stato di Ceausescu, del partito, della grande lotta patriottica? Ma basteranno poche parole del baffuto brizzolato a tranquillizzarlo.

Un nuovo Conducator

Anche il nuovo Conducator parla di patriottismo, di unione del partito, di difesa della romenità, di progresso e sviluppo. Dice che la Romania non è un paese di Serie B all’interno dell’Unione Europea, e pertanto merita rispetto. Ovidiu all’inizio non capisce cosa sia l’Unione Europea; ma sì, sarà una specie di organismo plutocratico finanziario che vuole schiavizzare i romeni, come il Fondo Monetario Internazionale, come la Banca Mondiale, come la Comunità Economica Europea; tutte istituzioni che negli anni ’80 volevano la morte economica della Romania, che difesa solamente dal suo leader cercava di sopravvivere. Sì, l’Unione Europea deve essere uno dei nuovi nemici. Menomale che il nuovo condottiero baffuto difende i poveri cittadini. Parla di virilità: il buon romeno deve essere maschio, forte, non dedito a inutili sollazzi culturali. Ovidiu è d’accordo, anche lui è stato educato così: gli hanno insegnato ad essere un duro lavoratore, a non risparmiarsi, a dare tutto per la patria e per il partito. Ma sì, dice Ovidiu tra sé e sé, Ceausescu probabilmente è morto, il partito ha cambiato nome per “modernizzarsi”, ma in fondo è rimasto tutto uguale.

Una transizione infinita?

Una transizione, per essere tale, deve trascinare il paese da un regime politico a un altro. Ma se i due regimi di passaggio sono di fatto speculari, possiamo realmente parlare di transizione? In Romania farebbe molto bene la lettura del Gattopardo. Cambiare tutto, affinché non cambi niente. Parole che perfettamente si adattano alla Romania del 2019, un paese dove le grandi multinazionali spostano i propri uffici, dove ci si diverte con pochi euro, con un dinamismo innegabile.

Dietro questa grande superficie dorata sopravvivono i drammi della Romania comunista: un’élite di partito che governa il paese in modo dispotico, un culto del notabile locale che ricalca esattamente quello rivolto ai maggiorenti del partito comunista nei vari villaggi del paese, una massa enorme di contadini semi-analfabeti che basa la sua esistenza esclusivamente sugli aiuti statali.

Nel paese ribolle una piccola ma vivace società civile che cerca di combattere le storture del sistema, con risultati alterni, dovuti anche a una chiara disparità di forze. Difficile dire cosa ne sarà della Romania nel 2019, un anno che inizia con la presidenza del consiglio UE e che si concluderà con le elezioni presidenziali, l’appuntamento elettorale più importante della politica romena. Una cosa è certa; forse per capire meglio l’est europeo, bisognerebbe spostarsi più a sud-est, e abbandonare le ormai trite e ritrite categorie del populismo anti-europeista e sovranista. Purtroppo per tutti, la situazione è un po’ più complessa.

Foto: nineoclock.ro

Chi è Francesco Magno

Ha conseguito un dottorato di ricerca in storia dell'Europa orientale presso l'università di Trento. E' attualmente assegnista di ricerca presso la medesima università. E' stato research fellow presso il New Europe College di Bucharest e professore di storia dell'Europa orientale presso l'università di Messina. Si occupa principalmente di storia del sud-est europeo, con un focus specifico su Romania, Moldavia e Bulgaria.

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Un commento

  1. Remus Cotut Scheipner

    Davvero la realtà e così, hai capito benissimo per che, maggior parte dei miei coetanei stanno facendo questo passo verso paesi occidentali, emigrazione per la povertà, materiale è spirituale . Articolo di una profonda e sottilissima intelligenza da parte del scrittore.Quando ho letto ero convinto che l’autore era rumeno, congratulazioni.

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