di Silvia Padrini
Per migliaia di georgiani è stato come tornare d’improvviso all’angoscia della guerra. Erano gli ultimi giorni dell’agosto 2010. Nel giro di qualche dozzina di ore è stata completamente sgomberata la più grande area occupata dai profughi nel cuore della capitale Tbilisi. In quegli edifici fatiscenti avevano per anni trovato rifugio circa mille famiglie scappate dalle zone colpite dai conflitti degli anni ’90 e dalla guerra russo-georgiana del 2008, le quali hanno creato, con l’aiuto di alcune ong, una comunità solidale, relazioni sociali, infrastrutture basilari, un asilo nido e un centro pomeridiano per ragazzi. Con un preavviso di pochissime ore, le famiglie del campo hanno subito uno sgombero forzato che ha suscitato l’indignazione e le critiche della comunità internazionale.
Da quel momento le autorità hanno dato una brusca frenata al processo di sgombero massiccio iniziato con l’estate e hanno annunciato l’elaborazione di un piano, in collaborazione con le ong locali e organizzazioni internazionali come l’UNHCR, contenente le linee guida per il rispetto di standard minimi nel trattamento e spostamento dei profughi interni, adottato nel settembre dell’anno scorso.
Dopo questo tentativo di regolamentazione, però, gli sgomberi sono proseguiti in tutto il paese e si sono verificati nuovi trasferimenti di profughi nel gennaio 2011 e, più di recente, lo scorso luglio. Come denunciato da varie parti, il governo georgiano ha nettamente fallito nel rispettare il diritto internazionale che tutela la condizione degli IDP (Internally Displaced Persons) e lo stesso protocollo nazionale elaborato nel 2010.
Diritti negati
Nessuno dei punti previsti dal regolamento è stato rispettato in modo soddisfacente. La notifica di sgombero in adeguato anticipo si è spesso trasformata in un’inattesa visita della polizia di Stato che ingiunge di lasciare la casa entro poche ore; l’adeguata consultazione preventiva ha lasciato spazio alla totale ininfluenza delle persone interessate nella decisione riguardo alla nuova sistemazione. Alcune famiglie sono rimaste senza dimora e senza l’ombra di un indennizzo, mentre la grande maggioranza è stata sistemata in aree rurali lontane dalla capitale e quindi avulse da qualsiasi opportunità lavorativa.
Gli anni passati, naturalmente, sono stati votati da queste persone alla ricostruzione di una minima stabilità, di relazioni interpersonali lontane da casa, di prospettive di studio o di lavoro. A causa dell’azione sconsiderata del governo, hanno dovuto assistere inermi mentre questa precaria impalcatura veniva rasa al suolo, d’improvviso.
In Georgia, il 6% della popolazione (approssimativamente 247.000 persone) appartiene alla categoria dei rifugiati interni a seguito delle guerre degli anni ’90 e del 2008; di questi, circa il 40% vive tutt’ora all’interno dei campi profughi.
Purtroppo, i progetti di fornire a tali famiglie soluzioni abitative durevoli -in particolare a quelle che vivono da quasi due decenni in condizioni precarie- si sono spesso trasformati in sgomberi forzati che violano il diritto internazionale.
Successivamente all’ultima ondata di sgomberi del luglio scorso, altre azioni delle autorità in questo senso sono previste. Amnesty International preme da tempo sul governo di Tbilisi perché si impegni a rispettare le procedure che tutelano i diritti dei rifugiati.
Viste le ambizioni della Georgia nelle relazioni con Europa e Stati Uniti, il governo di Sakaashvili farebbe meglio ad impegnarsi maggiormente per normalizzare quanto prima la situazione delle migliaia di cittadini georgiani incastrati nello status di “profughi interni”e ad andare a fondo nell’accertare le responsabilità e i fatti avvenuti durante il recente conflitto con la Russia che ancora rimangono torbidi.