A vent'anni dalla fine della guerra in Kosovo, una vittima di stupro racconta pubblicamente la sua drammatica esperienza. Una speranza perché altre possano avere il coraggio di fare altrettanto facendo finalmente partire la ricerca della giustizia fin qui negata

KOSOVO: “Avrei preferito morire”, una donna rompe il silenzio sugli stupri di guerra

“In quel momento volevo solo essere uccisa”: con queste parole, semplici e drammatiche, Vasfjie Krasniqi Goodman ha interrotto per sempre un silenzio durato quasi vent’anni, tanti quanti ne sono passati dalla fine della guerra in Kosovo. Rompendo un tabù che sembrava insormontabile, la Krasniqi Goodman è stata, infatti, la prima donna kosovara a parlare pubblicamente della violenza sessuale subita durante la guerra, nel 1999, quando era ancora minorenne. L’ha fatto nel corso di un’intervista televisiva rilasciata nell’ottobre scorso all’emittente pubblica kosovara, RTK, durante la quale ha ricostruito la propria vicenda personale.

I numeri del dramma

Per due decenni le vittime di abusi sessuali sono state le vittime nascoste della guerra, quasi fossero un indotto di secondaria importanza. Eppure i numeri sono terribili: pur mancando stime ufficiali, numerose fonti accreditano in  diverse migliaia (forse addirittura 20.000) le persone, perlopiù donne, sottoposte a violenze sessuali perpetrate per la maggior parte da appartenenti alle truppe militari e paramilitari e ai corpi di polizia serbi. Una cifra spaventosa se si considera che essa rappresenta il 5% dell’intera popolazione femminile. Lo stupro, dunque, non si è configurato come fatto occasionale e individuale quanto, piuttosto, come atto sistematico, come vero e proprio strumento di guerra: un crimine, perlopiù finalizzato alla pulizia etnica, paragonabile alla tortura e persino all’omicidio.

Per anni le vittime hanno mantenuto il proprio segreto nel timore di essere stigmatizzate da una società conservatrice e patriarcale come quella kosovara al punto da rinunciare al supporto medico o psicologico (sono moltissimi i casi di suicidio) e, ancora oggi, a rifiutarsi a fare domanda per avere accesso al previsto sussidio statale. Visto da questa prospettiva il gesto della Krasniqi Goodman assume, dunque, un significato simbolico e sociale di primo piano tracciando quell’esempio che, auspicabilmente, porterà altre vittime a farsi avanti, favorendo anche l’inizio dell’iter giudiziario.

Lo scempio impunito

E’ proprio sul piano giudiziario, infatti, che si registrano i ritardi più clamorosi, al punto che il rapporto stilato da Amnesty International nel 2017 per ricostruire lo stato dell’arte parla apertamente di “giustizia negata”.
Il ritardo della giustizia è legato a doppio filo non solo alla mancata volontà politica ma anche, come sottolineato proprio da Amnesty International, al sostanziale disinteresse delle forze appartenenti alle missioni internazionali, la United Nations Interim Administration Mission in Kosovo (UNMIK) e la European Union Rule of Law Mission in Kosovo (EULEX), a portare avanti le indagini verso i presunti responsabili, a fronte delle centinaia di denunce ricevute. Questo quadro s’inserisce, inoltre, in un contesto in cui in Serbia sembra tuttora prevalere la cultura dell’impunità che impedisce, di fatto, la persecuzione dei responsabili dei crimini di guerra.

Il risultato di tutto ciò è desolante: malgrado siano ben tre le corti ad aver giurisdizione in Kosovo sui presunti crimini di guerra, ovvero il Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia (ICTY), la Camera Speciale per i Crimini di Guerra di Belgrado e le Corti kosovare, i processi completati, ad oggi, sono pochissimi: quattro intentati dall’ormai sciolto ICTY verso alti ufficiali serbi, due dalla Camera Speciale di Belgrado e tre, infine, dalle corti kosovare. Con risultati ancora più sconfortanti, poiché i processi sono terminati, complessivamente, con due sole condanne. Lo stesso processo della Krasniqi Goodman si è concluso, in terzo grado, con l’assoluzione per insufficienza di prove dei due poliziotti serbi accusati.

Il piano politico e sociale

Sul piano sociale e politico la situazione appare più incoraggiante. Grazie soprattutto all’impulso dato da Atifete Jahjaga, prima donna presidente del Kosovo (tra il 2011 e il 2016) e alla pressione esercitata dalle ONG che da anni si prendono cura di centinaia di casi, il parlamento kosovaro ha approvato, nel 2014, una legge per il riconoscimento di status di vittima alle donne assoggettate a violenza sessuale. Da febbraio di quest’anno è stato attivato un registro al quale è possibile inviare domanda per il riconoscimento dello status di vittima di abusi sessuali, nel rispetto della riservatezza e, significativamente, senza dover necessariamente addurre prove di ripercussioni fisiche o disabilità.

Il riconoscimento dà diritto ad un sussidio mensile di 220 euro, una cifra equivalente al 90% dello stipendio medio mensile femminile e oltremodo rilevante se si pensa che molte delle vittime vivono emarginate persino dalle proprie famiglie di origine, che hanno vissuto lo stupro come un disonore (“meglio morta che violentata”). Dopo solo pochi mesi, a luglio, le domande pervenute erano 600, quelle analizzate 115 e quelle approvate 84. Numeri importanti ma ancora modesti, se rapportati alla magnitudo del fenomeno; numeri che corroborano ulteriormente l’importanza del gesto pubblico della Krasniqi Goodman.

La legge tuttavia non è esente da difetti, anche significativi, primo tra tutti il fatto che copre solo gli episodi avvenuti tra il 27 febbraio 1998 e il 20 giugno 1999: si escludono, in questo modo, i fatti occorsi nell’immediato dopoguerra quando le parti si capovolsero e a subire violenza furono le donne serbe in conseguenza ad atti di ritorsione condotti da elementi dell’Esercito di Liberazione del Kosovo (UCK). Questo ha portato alle risentite proteste delle associazioni delle vittime serbe che hanno chiesto che la legge venga emendata.

Riparazione senza giustizia

A emergere è quindi un quadro in cui in Kosovo le vittime di abusi sessuali potranno avere riparazione ma difficilmente giustizia. Sembra esserci però una consapevolezza sociale nuova: sono sempre più frequenti i casi di vittime che si recano nei centri di assistenza accompagnate dai mariti e una statua, realizzata con ventimila medagliette militari a riprodurre un volto di donna, è stata eretta nel 2015 nel centro di Pristina a rappresentare le donne stuprate come martiri di guerra. Nello stesso anno l’artista kosovara Alketa Xhafa Mripa ha appeso 5000 vestiti su degli stendibiancheria in un campo da calcio a simboleggiare la fragilità e la purezza delle sopravvissute alle violenze. Anche i simboli hanno la loro importanza.

Chi è Pietro Aleotti

Milanese per caso, errabondo per natura, è attualmente basato in Kazakhstan. Svariati articoli su temi ambientali, pubblicati in tutto il mondo. Collabora con East Journal da Ottobre 2018 per la redazione Balcani ma di Balcani ha scritto anche per Limes, l’Espresso e Left. E’ anche autore per il teatro: il suo monologo “Bosnia e il rinoceronte di pezza” ha vinto il premio l’Edizione 2018 ed è arrivato secondo alla XVI edizione del Premio Letterario Internazionale Lago Gerundo. Nel 2019 il suo racconto "La colazione di Alima" è stato finalista e menzione speciale al "Premio Internazionale Quasimodo". Nel 2021 il racconto "Resta, Alima - il racconto di un anno" è stato menzione di merito al Premio Internazionale Michelangelo Buonarroti.

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