Da diversi giorni la notizia imperversa su buona parte dei giornali internazionali: alcuni paesi est europei hanno intrapreso una battaglia contro Amazon, colosso statunitense che opera nel settore del commercio elettronico. Inizialmente, qualcuno avrà pensato a una rivendicazione di diritti da parte dei lavoratori, o a recriminazioni per il mancato pagamento delle tasse da parte dell’azienda di Jeff Bezos. Questa volta, invece, la pietra dello scandalo è la merce in vendita.
Contemporaneamente alla richiesta del ministro della Salute ucraino Uljana Suprun, che ha chiesto all’amministratore delegato di Amazon di rimuovere le merci con i simboli delle repubbliche separatiste del Donbass, è arrivata una lettera da parte di alcuni membri del Parlamento europeo.
Addio falce e martello
Il 16 novembre 27 membri del Parlamento europeo hanno scritto una lettera aperta, chiedendo a Jeff Bezos di rimuovere le merci con simboli che rimandano al comunismo. La missiva, iniziata dal parlamentare lituano Antanas Guoga e firmata in gran parte da membri dei paesi dell’Europa centro-orientale, cita svariati esempi di prodotti che, con la presenza di falce e martello, “glorificano il sistema totalitario sovietico e quindi mostrano una mancanza di compassione nei confronti di milioni di cittadini europei”.
I simboli comunisti sono vietati in gran parte dell’Europa centro-orientale, come prevedibile risultato di un processo di decomunistizzazione, che ha implicato anche la rimozione di monumenti e una rivoluzione nella toponomastica dei paesi coinvolti.
La mobilitazione per la rimozione dei simboli comunisti giunge ora a un livello globale, dopo il bando nei singoli paesi e una serie di rivendicazioni a livello europeo. La campagna, dilagata anche sui social network, è stata accompagnata dalla domanda “Perché non la svastica?”, a sottolineare i cosiddetti “doppi standard”, due pesi e due misure adottati nei confronti di simboli dei totalitarismi.
Il tutto è parte di una continua richiesta dei paesi dell’ex blocco di Varsavia, che dal loro ingresso in Unione Europea hanno cercato il riconoscimento dei crimini subiti da parte dei regimi socialisti.
Ugualmente europei
La lettera fa infatti riferimento alla risoluzione del 2 aprile 2009, con cui il Parlamento Europeo condannava in egual modo i crimini di tutti i regimi totalitari, istituendo così una Giornata in ricordo delle vittime dello stalinismo e del nazismo. Fu allora una piccola vittoria per quelli che in quel momento erano i “nuovi membri” dell’Unione, che videro così riconosciuta una parte della propria storia, fino ad allora assente da una memoria comune europea.
La richiesta di equiparare i due sistemi totalitari aveva causato, ai tempi, anche l’indignazione di alcune associazioni e studiosi ebrei, che con questo processo temevano una relegazione dell’Olocausto a uno “tra i crimini” della storia europea.
La battaglia dei cittadini centro-orientali ambiva al raggiungimento dello status di “cittadini europei” – una richiesta di vedere riconosciuta la propria esperienza e la propria sofferenza all’interno del bagaglio storico dell’Unione – e allo stesso tempo rappresentava un altro passo verso la decomunistizzazione e l’affermazione della propria identità nazionale.
Un processo che continua a svolgersi, a livello nazionale e internazionale, tra riscritture della storia e rivendicazioni.