SERBIA: Cosa vuol dire essere rom?

Da BELGRADO – Emarginati, disprezzati, discriminati e spesso meta di attacchi. I rom – più comunemente e dispregiativamente chiamati “zingari” – restano relegati ai margini della nostra conoscienza, oltre che della società, e sono sempre ed ovunque ostaggio di stereotipi che durano nel tempo.

La Serbia è il paese con la più numerosa comunità rom dell’ex Jugoslavia, ma cosa vuol dire davvero essere un rom in questo paese? L’abbiamo chiesto a Marija Mitrovic, direttrice esecutiva della Coalizione della Gioventù Rom di Serbia (KROS), network della società civile che si batte per una maggiore inclusione sociale dei rom nel paese.
Per il settantesimo anniversario della dichiarazione dei diritti umani, l’Unione Europea ha nominato Marija “difenditrice dei diritti umani in Serbia”, un riconoscimento simbolico per il suo lungo attivismo – tramandato da suo nonno e suo padre – e che la vedrà impegnata in campagne per la promozione e tutela dei diritti fondamentali nel suo paese.

Secondo l’ultimo censimento, in Serbia ci sono circa 150mila rom, ma cosa significa essere un rom oggi?

Innanzitutto, questi numeri non rispondono alla realtà. Noi rom siamo molti di più. E questo già risponde alla tua domanda: dichiararsi rom pubblicamente ha delle conseguenze di carattere sociale. Molti preferiscono identificarsi come serbi, un po’ per attaccamento a quello che è da generazioni il nostro paese, ma spesso purtroppo anche per evitare di essere meta di discriminazioni.
Per me essere rom non significa altro che avere la pelle un po’ più scura, ma questa tonalità non piace. Le discriminazioni iniziano sin dall’adolescenza, a scuola, da parte sia dei compagni di classe, sotto l’influenza dei genitori, che dall’istituto scolastico. La conseguenza è che le famiglie dei bambini perdono fiducia nelle istituzioni e nella scuola stessa, non trovandola utile. Questo ha inevitabili ricadute nella successiva ricerca del lavoro, perché senza titolo di studio è ancor più difficile trovare un mestiere. E nel mercato del lavoro le discriminazioni aumentano, perché è raro che i datori di lavoro assumano un rom.

Ma qui a Belgrado si vedono rom che sono in qualche modo integrati nel mondo del lavoro, forse più che in Italia…

Si tratta per lo più di lavori sottopagati e per i quali non sono necessarie qualifiche tecniche e titoli di studio. In Serbia non ci sono rom che lavorano presso istituzioni pubbliche, né che fanno i panettieri o i camerieri. Chi lavora, nella maggior parte dei casi, è un operatore della nettezza urbana o semplicemente vende frutta e verdura al mercato.

Eppure, la comunità rom vive in Serbia e nei Balcani da molto tempo, in che modo vi sentite parte di questa società?

I rom abitano in questa regione sin dall’epoca dell’imperatore Dusan [1300, nda]. Un altro gruppo – i “bejaši” – arrivò in Serbia quando re Milos Obrenovic aprì il confine orientale, scappando dall’attuale Romania, dove fino a metà ‘800 i suoi membri erano venduti e sfruttati come schiavi e dove a chi parlava la lingua rom veniva tagliata la lingua – ed è per questo che tutt’oggi quel gruppo parla una variante del rumeno e non il romanì.

In questi secoli abbiamo dato un contributo importante alla storia serba: dopo la Prima guerra mondiale, per esempio, la comunità rom ricevette il più alto riconoscimento militare da parte di re Aleksandar Karadjordjevic per l’eroismo in battaglia. Questo fatto migliorò la nostra sorte e la nostra integrazione. Negli anni Trenta, nel Regno dei Serbi, Croati e Sloveni venne addirittura fondata la prima organizzazione femminile rom (anche se all’epoca venivamo ancora chiamati “zingari”) e sempre il quel periodo venne stampato il primo giornale in lingua rom.
Ma il periodo migliore, in termini di uguaglianza, arrivò dopo la Seconda guerra mondiale con la Jugoslavia dell’Unione e Fratellanza: all’epoca i rom andavano in fabbrica e facevano tutti i possibili lavori. Una cosa che invece oggi non accade più. Nonostante esista una legge che impone ai datori di lavoro di non discriminare i lavoratori in fase di assunzione, questa legge non viene rispettata e lo stato serbo non fa nulla per farla rispettare.

Cosa è necessario che facciano le istituzioni statali?

La Serbia deve continuare con le misure di discriminazione positiva attraverso la quale, sia per la scuola dell’obbligo che per l’università, vengono riservati dei posti agli appartenenti alla nostra comunità. Quello che deve invece iniziare a fare è assicurare che non avvengano discriminazioni sul lavoro, affinché i rom possano sostenere i propri bisogni e quelli delle proprie famiglie in modo autonomo. Secondo una ricerca della Banca Mondiale, ogni anno l’esclusione sociale e l’isolamento della comunità rom costa alla Serbia circa 50 milioni di euro, eppure se questo denaro venisse investito per migliorarne l’accesso all’educazione e al mondo del lavoro, questi soldi tornerebbero velocemente allo stato sotto forma di contributi.

Hai qualche messaggio da dare a chi vi discrimina e ai rom vittime di pregiudizi?

Non c’è niente di più facile che avere pregiudizi superficiali. Molto più difficile è provare a mettersi nei panni della persona discriminata, provare a pensare con la testa di chi viene degradato per qualunque attività svolga al di fuori del proprio quartiere – sia questa andare al mercato o andare a fare un controllo medico (che spesso viene negato) – ma che ciò nonostante ha una famiglia e una vita da portare avanti. Questo atteggiamento non fa che aumentare ulteriormente lo spazio tra la comunità rom e il resto della società. Il mio consiglio quindi è di andare oltre l’apparenza delle differenze formali e giudicare una persona per quello che è veramente.
Il mio messaggio per i rom invece è quello di resistere. A prescindere da quello che fanno, devono continuare a perseguire i propri obiettivi e ambizioni. In altre parole, opre roma! [Avanti rom!]

Chi è Giorgio Fruscione

Giorgio Fruscione è Research Fellow e publications editor presso ISPI. Ha collaborato con EastWest, Balkan Insight, Il Venerdì di Repubblica, Domani, il Tascabile occupandosi di Balcani, dove ha vissuto per anni lavorando come giornalista freelance. È tra gli autori di “Capire i Balcani occidentali” (Bottega Errante Editore, 2021) e ha firmato due studi, “Pandemic in the Balkans” e “The Balkans. Old, new instabilities”, pubblicati per ISPI. È presidente dell’Associazione Most-East Journal.

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