Giovedì 1 novembre l’Assemblea Nazionale armena si è riunita per la seconda volta nell’ultima settimana per individuare il nome del prossimo primo ministro, dopo le dimissioni annunciate lo scorso 16 ottobre da Nikol Pashinyan, nominato premier dopo aver guidato le proteste di piazza che lo scorso aprile portarono alle dimissioni forzate di Serzh Sargsyan.
In seguito alla prima votazione, svoltasi lo scorso 24 ottobre e conclusasi con un nulla di fatto, come era prevedibile anche questa volta l’Assemblea non è riuscita a eleggere un capo del governo. L’unico candidato in lizza era lo stesso Pashinyan, nominato per una questione puramente formale dalla propria coalizione, la neonata alleanza “Il mio passo” (Im kaylǝ), costituita ad agosto in vista delle elezioni del Consiglio comunale di Yerevan (poi stravinte con l’81% delle preferenze).
Trattandosi del secondo tentativo andato a vuoto, secondo quanto previsto dalla Costituzione armena, ora il parlamento sarà sciolto, e il presidente Armen Sargsyan dovrà indire elezioni anticipate, destinate a svolgersi il prossimo 9 dicembre.
Tutto previsto
In realtà, il passo indietro annunciato da Pashinyan, che da qui a dicembre ricoprirà il ruolo di primo ministro ad interim, era già stato preventivato da tempo, in quanto mossa necessaria proprio per portare il paese alle elezioni. Fin dalla sua nomina, avvenuta lo scorso maggio, il leader delle proteste di aprile aveva infatti dichiarato che il suo sarebbe stato un governo provvisorio, mirato a ripulire il paese dalla corruzione e traghettarlo verso elezioni anticipate.
Secondo Pashinyan infatti, l’attuale composizione del parlamento armeno, guidato dal Partito Repubblicano, formazione che è espressione del vecchio regime e che detiene ancora la maggioranza dei seggi (seppur non più assoluta, a causa di una serie di defezioni verificatesi negli ultimi mesi), non rispecchierebbe l’esito della rivoluzione di aprile.
Quello guidato negli ultimi mesi da Pashinyan è stato infatti un governo d’opposizione. Partito con i soli nove seggi in dote all’alleanza Yelk, della quale è stato leader fino ad agosto, in seguito alla creazione della coalizione Il mio passo i seggi in parlamento a disposizione di Pashinyan sono scesi addirittura a cinque, ovvero quelli occupati dal partito Contratto Civile, presieduto dallo stesso premier.
Non potendo governare con una minima manciata di seggi, Pashinyan si è dovuto alleare con il resto dell’opposizione, stringendo un’intesa con il partito Armenia Prospera, formazione guidata da Gagik Tsarukyan, e con la Federazione Rivoluzionaria Armena, che sull’onda delle proteste di aprile ha deciso di abbandonare il Partito Repubblicano, con il quale governava dal 2017.
Un simile governo di larghe intese non era però altro che una soluzione provvisoria, in vista del necessario rinnovo l’Assemblea Nazionale, attuabile unicamente attraverso lo svolgimento di elezioni anticipate (le ultime elezioni parlamentari si sono infatti svolte nel 2017, e le prossime erano previste per il 2022), e quindi tramite le dimissioni dello stesso premier. A dicembre Pashinyan potrà così provare a conquistare quella maggioranza parlamentare che gli consentirebbe di governare il paese senza più impedimenti, portando così avanti quella rivoluzione iniziata la scorsa primavera nelle strade di Yerevan e mai realmente terminata.