di Andrea Loffi
In fin dei conti, il Novecento non l’ha capito davvero nessuno. Forse ci ha visto giusto il grande storico Eric Hobsbawm – faccia da Woody Allen e modi cortesi da englishman: forse il Novecento è stato, dal 1914 al 1991, un secolo breve, e dopo è cominciata un’altra storia.
Il secolo breve è un secolo di cadute: l’Europa smette di essere quel che è sempre stata, la società diventa di massa e di massa diventa l’industria, la guerra, la politica, i consumi, la cultura. Nelle chiese vuote s’installano le ideologie, la filosofia si disfa insieme ai vecchi imperi, insieme ai libri, insieme al tempo stesso che non conosce più la santa sfaccendatezza dell’otium. Cade, in definitiva, l’uomo. È il secolo della caduta del fondamento.
In tutto questo cadere, un adolescente romeno, fin troppo miope e fin troppo sicuro di sé, legge di straforo romanzi francesi durante le lunghe ore di lezione e passa la notte a consumarsi gli occhi sui trattati di entomologia. La Bucarest onirica dei primi anni Venti che Mircea Eliade descrive nel suo Romanzo dell’adolescente miope non è un posto esotico, anche se si trova a est: gli interessi della cultura, il programma della scuola, i manuali – tutto parla la lingua che si parla nell’Europa occidentale. E dell’Occidente questo Oriente ha contratto anche le manie e i tarli. In un romanzo romeno di quegli anni, e soprattutto un romanzo di Mircea Eliade, che da grande avrebbe fatto lo studioso di religioni arcane e un pizzico morbose, uno s’aspetterebbe di trovarci dell’estetica bizantina, del simbolismo astruso, magari del nazionalismo misticheggiante per la patria ritrovata. E invece no. Ci trova il veleno occidentale allo stato più puro e squisito.
Il romanzo dell’adolescente miope
La cosa interessante di questo romanzo giovanile di Eliade pubblicato postumo è che si tratta di un meta-romanzo: il protagonista, cioè il giovane Eliade stesso, racconta nel romanzo di voler scrivere un romanzo. Anzi: il Romanzo, qualcosa di geniale e mai visto. Va da sé che non gli riesce, e il risultato è proprio il romanzo sul romanzo mai scritto. Già in questa forma narrativa bizzarra si vede all’opera lo sfaldamento di cui si è appena detto: non più, come nel romanzo classico dell’Ottocento, una trama corale e lineare, ma una narrazione che si ripiega su se stessa, tutta salti e lacune. Questo di Eliade, intendiamoci, non è un romanzo bello nel senso canonico, e in qualche sua parte l’autore è un po’ pecione. Ma è un romanzo intenso e, per quanto ingenuo, sincero.
Il tema del romanzo è la vita di Eliade stesso. La vita cioè di un ragazzino di Bucarest che frequenta la scuola di malavoglia, ha le prime esperienze con la femmina, si sottopone a una disciplina ferrea per diventare un genio, che vuol far scaldare il pubblico con le sue modeste performance teatrali e che vuole scaldarsi il sangue col liquore durante le lunghe notti invernali. In un fulminante ritratto dell’amico Radu, che si è andato a cacciare nelle periferie dell’esistenza, Eliade scrive: «Beveva grappa fin dal mattino, fumava cinquanta sigarette al giorno e raccontava barzellette stupide. Di vacanza in vacanza lo trovavo sempre più abbrutito […] se la svignava dal collegio dopo mezzanotte e al mattino arrivava al liceo direttamente dall’osteria ubriaco e sporco di sangue. Aveva perso sia il suo buon senso sia i suoi lampi di genio e non aveva più né spirito di osservazione né la capacità di ribattere in tono caustico […]. Era diventato cinico e volgare. Non poteva addormentarsi e nemmeno mangiare senza la grappa». Insomma, tutte vicende senza grande interesse in se stesse. La vita di un sedicenne romeno tende a non essere di grande interesse.
La superbia del Novecento
Ma proprio questo è interessante. La parola è un po’ retrò, ma funziona: superbia. Questo adolescentello ha un gran senso di sé, sa che la sua volontà può tutto; sa di poter raggiungere, con un certo numero di ore di lavoro costante, le vette della cultura e della gloria. Ma sa anche che la carne è debole, cede, ed egli si disprezza, per poi riprendere con rinnovato vigore. Qui si vede già, in nuce, l’interesse che Eliade adulto, con la pipa in bocca, avrebbe sviluppato per l’ascesi religiosa, per lo yoga e per le pratiche di disciplina dell’anima.
C’è, in tutto questo atteggiamento, la tensione del genio che fu tipica del Romanticismo tedesco, senza che di esso rimanga la nobiltà di cuore e di lignaggio del protagonista. I personaggi hanno piuttosto la miseria degli anonimi e illogici personaggi di un Kafka. E su questo retroterra di volontà ed esaltazione mescolati al disprezzo per gli ostacoli, sui vari Nietzsche e Gentile e Sorel, si preparò il terreno all’avvento dei fascismi.
Solo verso la fine del romanzo, nella terza parte, si ha una crisi di crescenza e s’intravvede finalmente una tranquilla, sana ma robusta mediocrità. Quanti capitomboli però, prima di arrivare a questa fine quieta dal sapore dolceamaro di mezza sconfitta…
Eliade e Papini
Il più brusco di questi capitomboli Eliade lo fa quando incappa nel libro di Giovanni Papini Un uomo finito, del 1913. Eliade lo legge con foga, e ritrova nelle pagine del bislacco letterato italiano esattamente le cose che ha scritto lui, ma scritte meglio, e teme di essere stimato soltanto per «un riflesso balcanico e incretinito del fiorentino». «Io ho vissuto la vita di Papini» scrive Eliade. E continua: «Questo sarà lo scopo della mia vita: distinguermi da Papini, non assomigliargli, non essere come lui».
Certe pagine di Papini, anche lui alle prese con un’autobiografia della propria presunta grandezza e dei propri fallimenti, hanno una tracotanza e un’esaltazione da Mein Kampf – anche se la sua prosa è più limpida: «Volevo – tuona il fiorentino – che incominciasse con me, per opera mia, una nuova epoca della storia degli uomini». Va a finire però che anche Papini, come Eliade, si smentisce a due pagine dalla fine, e con l’ennesimo calembour di idee e convinzioni si rassegna, lui pure, a essere non un uomo finito, ma un uomo normale.
Il nerbo di questo genere di romanzi sta in una serie di dialettiche che tormentano l’uomo al suo cuore. Sopra tutte sta quella tra il senso di onnipotenza, quel superbo “io sono IO” che si ritrova spesso in bocca ai protagonisti, e l’effettiva incapacità di realizzare alcunché (e meno che mai il Romanzo). Omini dall’aspetto mediocre, se non squallido, sono convinti della propria unicità, che finisce con l’infrangersi contro la dura esperienza d’esser stato preceduto da qualcuno più bravo: Eliade scopre in Papini quella che gli sembrava farina del sacco proprio; Papini, a sua volta, non riesce a eguagliare Dante e Goethe nella scrittura.
E allora, la possibilità del suicidio occhieggia da per tutto. In Papini, che ne fa, per un certo tempo, la propria ragione di vita e scrive: «acconsentii a vivere soltanto colla buffa speranza di far morire tutti gli uomini insieme a me». Ma il suicidio seduce anche Eliade, come pure seduce il suo grande compatriota Emil Cioran che ne fece la pietra d’angolo della propria filosofia.
Lo si potrebbe chiamare, questo rovello dell’uomo nuovo novecentesco, esistenzialismo di prima maniera. In esso non ci sono ancora né la profondità ingarbugliata dei filosofi tedeschi né la lucida disperazione di quelli francesi, ma piuttosto il sentore di una domanda che ancora non sa, nemmeno lei, come dev’essere formulata.
foto: sulromanzo.it
Bibliografia
Mircea Eliade, Il romanzo dell’adolescente miope. Traduzione di Celestina Fanella, Milano, Jaca Book, 1992.
Giovanni Papini, Un uomo finito. Firenze, Libreria della Voce, 1917.