LETTERARIA: “Attraversando il fiume in bicicletta”, ricordi di una vita tra Belgrado, l’Argentina e Trieste

Ana Cecilia Prenz Kopušar è un’argentina italiana nata a Belgrado; le tre anime spaziali, culturali e linguistiche in lei si mescolano e lottano in un fiume libero di ricordi personali che l’autrice attraversa come volando a bordo di una bicicletta senza pedali né freni. Un libro femminile con una narrazione quasi sospesa, dove i luoghi e i tempi hanno sempre prima di tutto una dimensione personale. La Storia si riflette nelle vicissitudini della famiglia dell’autrice che attraversa così gli anni della dittatura argentina, la Jugoslavia titina, le tensioni politiche italiane degli anni Settanta e, infine, la dissoluzione e le guerre della Jugoslavia. “È l’amore verso gli spazi, i loro riflessi, profumi, la loro gente” ad aver dato la luce a questo libro, Attraversando il fiume in bicicletta (auto-tradotto dallo spagnolo, edito da Vita Activa, 2016, euro 12), ammette Prenz Kopušar nell’epilogo.

“È divertente sfogliare le mie pagelle. I certificati hippies del Centro Pedagogico di La Plata, redatti in spagnolo. I libretti socialisti scritti in cirillico della scuola jugoslava e la pagella classicheggiante italiana”, ricorda l’autrice nel libro. I nonni di Cecilia erano partiti dall’Istria per Buenos Aires; in Argentina “del paese che comprendeva i territori dove loro erano nati, ne sapevano poco”, “ricordavano i tempi dell’Impero austroungarico e più tardi le prepotenze dei fascisti” e continuavano a preservare la loro lingua natia, il dialetto ciacavo (čakavski). Quando nel 1982 la famiglia di Cecilia divenne apolide (l’Argentina revocò loro la cittadinanza), fu grazie ai nonni che divenne italiana: “non si erano mai preoccupati di riconsiderare i propri passaporti. La storia era trascorsa e loro erano rimasti italiani. Questa è stata la mia fortuna”. Una ironia del destino per lei, nata a Belgrado da genitori argentini e nonni istriani.

Dopo l’asilo a Belgrado, Cecilia rientra brevemente in Argentina con la famiglia, dove frequenta parte delle scuole elementari. Nella capitale jugoslava ritorna a 10 anni: “è stata bella la mia adolescenza in Jugoslavia. Non so se è stato il popolo serbo con il suo calore, con l’estrema ospitalità che mi ha fatto sentire sempre a casa. Mai, come allora, ho percepito in modo così forte il senso di appartenenza”. Belgrado continuerà a essere un luogo caro al cuore, anche durante gli anni di liceo, trascorsi già a Trieste. La Jugoslavia è per lei bambina un luogo affascinante e caldo e sono i dettagli a sottolinearlo: l’importanza per lei della pionirska marama (fazzoletto rosso) da indossare nel coro, il sapore del burek, le case (che “non erano belle, nemmeno grandi, e tanto meno confortevoli” ma “calde, piene di vita” e di musica jazz, rock, popolare), la canzone Katjuša imparata ancora all’asilo. Persino i chioschi di oggetti inutili e “qualche costruzione dei gitani, decadenti, povere ma pittoresche”, le risultavano particolarmente ameni quando stanca di Trieste scappava a Belgrado, anche solo per due giorni: “Che bello! Certo, tutto ciò non aveva nulla di bello. Ancor di meno quando dovevamo scendere dal treno. Era un’abitudine lanciarsi tutti i passeggeri insieme e contemporaneamente sulla porta, spingendosi a vicenda senza aspettare che l’altro scendesse. Era una questione di corpi”.

La magia cinetica e corporea di Belgrado è per l’autrice contrapposta a quella eterea e distaccata di Trieste: “La noia. Il grande tema di Trieste. Che città affascinante e anche che gente affascinante. Si vive come sospesi nell’aria, fuori da qualunque dimensione del reale. Concentrati su se stessi. Il mondo non esiste. Una forma di eternità. Tutto ciclicamente si ripete. In uno stato di benessere e vuoto allo stesso tempo”.

Infine, le guerre di dissoluzione della Jugoslavia la vedono traduttrice per giornalisti, politici in territorio neutro e sul campo, come nell’occasione di uno scambio di prigionieri tra serbi e croati al confine appena oltre Dubrovnik. A Milano, in un incontro diplomatico, “partecipava un ministro della neo Croazia. Io dovevo tradurre il suo discorso. Prima dell’incontro scambiò con me alcune parole. Percepì il mio accento […]. Rifiutò la traduzione. È stato il primo schiaffo. Forte, molto forte. Io volevo continuare ad essere jugoslava”.

Attraversando il fiume in bicicletta è un racconto vivo, un diario la cui voce parla direttamente al lettore, senza filtri. Anche per questo la narrazione è a punti spezzata, nominale, mentre compaiono ora fotografie, ora componimenti poetici, ora omaggi a figure intellettuali importanti, come il poeta Izet Sarajlić o la scrittrice sefardita bosniaca Laura Papo Bohoreta. È un romanzo che vive essenzialmente di ricordo, ma non privo di incursioni nel presente. Da noi intervistata, Ana Cecilia Prenz Kopušar ha affermato che “certamente la nostalgia è parte del libro e della sua vita, ma ciò non significa vivere nel passato o non saper superare i ricordi. La mia nostalgia è proiettata nel futuro, all’acquisizione di nuove esperienze e nuove identità, impossibili se si dimentica il passato. Nel libro descrivo non solo la mia biografia, ma narro della storia di tre paesi diversi; in particolare, nei confronti della Jugoslavia il mio è un atto di rivendicazione di un’adolescenza per me felice e riflette l’amarezza che provo nel vedere che ciò che è morto non ha dato origine a qualcosa di migliore, una distruzione senza rinascita”.

Chi è Martina Napolitano

Dottoressa di ricerca in Slavistica presso l'Università di Udine, è direttrice editoriale di East Journal e scrive principalmente di Russia.

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