Il suo primo romanzo “Knjiga o Uni”, pubblicato in Italia nel 2017 con il titolo “Il Mio Fiume”, è stato un caso editoriale internazionale culminato con il premio per la letteratura conferitogli dall’Unione europea nel 2013. A distanza di oltre cinque anni da quel successo, Faruk Šehić, bosniaco di Bihać, ha finalmente dato alle stampe un nuovo libro, una raccolta di racconti brevi intitolata “Clockwork stories”: una meditazione tra prosa e poesia sui cambiamenti personali e della società indotti dalla guerra.
L’esperienza della guerra, difatti, pervade la poetica di quest’autore fin dal suo esordio, e non potrebbe essere diversamente visto che la guerra, quella vera, Šehić l’ha combattuta in prima linea, negli anni del conflitto che travolse l’ex Jugoslavia. Lasciata Zagabria e gli studi veterinari nel 1992, Sehić è tornato in Bosnia per difendere il proprio paese, fino a diventare un ufficiale dell’Esercito della Bosnia Erzegovina.
Intervistato da East Journal, Šehić racconta a ruota libera la sua esperienza, le speranze e le aspettative che nutre per il proprio paese. «C’è stata senz’altro una certa dose d’incoscienza giovanile nella scelta di combattere – afferma – ma sopra ogni cosa ha prevalso la consapevolezza che non potevo starmene seduto mentre la mia città e il mio paese venivano distrutti dai serbi».
Una scelta che gli è valsa la definizione di “poeta-soldato”, non si sa quanto lusinghiera: «Non temo che quest’appellativo possa oscurare quello che sento di essere oggi; d’altra parte è stato Baudelaire a dire che i grandi uomini sono poeti, soldati e preti. Io mi limito ai primi due. Scherzo, ma è ovvio che quella definizione sia solo un espediente giornalistico utile per rappresentarmi in modo evocativo; ciononostante credo che essa raffiguri fedelmente il dualismo che c’è in me, anche se io mi sento scrittore fin nel profondo della mia essenza».
Il ritorno alla vita civile dopo quattro anni è, infatti, anche l’inizio della sua seconda vita, quella che l’ha consacrato come uno degli scrittori più interessanti del panorama europeo: «Non è stato semplice tornare a una parvenza di normalità ma nulla era facile in quegli anni, molti si accontentavano di essere sopravvissuti. Per parte mia la guerra è stata un gigantesco azzeratore, mi è servita a far cadere la maschera di convenzionalità che indossavo, mi ha aiutato a capire che scrivere era la mia missione e in particolare scrivere di argomenti scomodi, di cose difficili da dire ma anche da leggere. La guerra è una di queste».
Con il riconoscimento a Šehić, l’Europa così “distratta” negli anni della guerra sembra, dunque, essersi accorta delle potenzialità, anche culturali, di questo piccolo stato, vaso di coccio tra Croazia e Serbia. Sensi di colpa, ipocrisia? «Forse sì – sottolinea Šehić – L’Europa ci ha lasciati soli in quegli anni terribili contro un esercito potente e ben armato ed anche oggi sembra favorire e dare supporto ai governi nazionalistici che hanno preso il sopravvento nell’intera area balcanica, come in Serbia e in Croazia. Nonostante tutto, però, resto fermamente persuaso che il nostro ingresso nell’Unione europea sia una condizione necessaria per la nostra rinascita».
La domanda di adesione della Bosnia Erzegovina all’Unione europea è stata presentata nel 2016, ma il completamento del processo appare ancora lungo e tortuoso, come confermato dall’attuale presidente della commissione, Jean-Claude Juncker, che nel suo discorso sullo stato dell’unione nel settembre scorso ha ripetuto che non vi saranno nuovi allargamenti durante il suo mandato.
La rinascita del paese, nonostante la spaccatura su base etnica della società bosniaca fotografata dall’ultimo censimento, non può che avvenire in un contesto unitario: «E’ vero, oggi la Republika Srpska è quasi totalmente abitata da serbo bosniaci, mentre la Federazione è perlopiù bosgnacca o croata. Sarajevo stessa non è più la città multiculturale e multietnica che l’ha resa famosa nel mondo e che era l’orgoglio della maggior parte dei bosniaci. Ma la Bosnia Erzegovina è, e deve restare, un paese unitario; disapprovo qualsiasi ipotesi di suddivisione etnica e se necessario sono disponibile a tornare a combattere per questo e per difendere quei confini che sono gli stessi da secoli».
La Bosnia sembra però stretta nella morsa dei nazionalismi, dentro e fuori i propri confini. «La Bosnia sarà sempre un obiettivo per i nazionalisti croati e serbi, che la vedono come una torta da spartirsi. Anche in Serbia e in Croazia, però, c’è una minoranza significativa, fatta di giornalisti, appartenenti a ONG, attivisti di associazioni per il rispetto dei diritti umani e intellettuali anti-nazionalisti. Sono loro che devono fare fronte comune per rivendicare l’autonomia della Bosnia contro qualsiasi mira espansionistica dei propri paesi. Per parte nostra se accettassimo una qualsiasi forma di divisione, noi bosgnacchi faremmo la fine dei palestinesi».
Un processo di riconciliazione nazionale che appare, allo stato attuale, assai lontano dal realizzarsi: «Sono convinto – argomenta Šehić – che questa frattura sia reversibile a patto di interrompere per sempre la narrazione delle élite nazionalistiche che sono, oggi, più pervasive che mai. I movimenti di estrema destra sono sempre più radicati. Tentativi di revisionismo storico, per piegare i fatti a proprio piacimento o addirittura negarli, sono all’ordine del giorno e coinvolgono tutte le parti in gioco, inclusa la mia. Il risultato di questo spostamento a destra del paese e di questi rigurgiti nazionalistici è che, tra i giovani, chi può se ne va, perché non intende buttare la propria esistenza aspettando il realizzarsi di false promesse o un lavoro che non c’è o, ancora, vivere nella paranoia di una nuova guerra».
Resta da vedere come si comporrà il complesso quadro politico bosniaco a seguito delle ultime elezioni. Solo così si potrà capire quale piega stia prendendo il paese.