Il fallimento del referendum tenutosi domenica 30 settembre in Macedonia potrebbe cambiare notevolmente la storia di questo Paese. Il referendum chiedeva ai cittadini l’accettazione o meno dell’accordo di Prespa, che avrebbe modificato il nome dello Stato in “Repubblica di Macedonia del Nord” e avrebbe aperto la strada all’integrazione euro-atlantica. Il mancato raggiungimento del quorum potrebbe ora scombinare i piani del governo guidato da Zoran Zaev, che sperava che questo referendum consultivo gli desse maggiore potere contrattuale per convincere 9 deputati dell’opposizione della VMRO-DPMNE, necessari per raggiungere la maggioranza dei 2/3, a votare a favore della riforma costituzionale.
Un referendum vinto da tutti
Nonostante soltanto il 36,91% degli aventi diritto si sia recato alle urne, i principali leader europei hanno festeggiato il risultato raggiunto dai sì. Il 92,61% dei votanti, infatti, si è espresso a favore dell’accettazione dell’accordo di Prespa, che pone fine alla disputa del nome con la Grecia. Su questa linea, il primo ministro Zoran Zaev ha dichiarato come intenda portare comunque la riforma costituzionale al voto parlamentare, forte degli alti consensi ricevuti durante il referendum.
Per contro, le opposizioni festeggiano. Si congratulano in particolare con quella piccola porzione di popolazione che ha votato “no” e, soprattutto, con chi non si è recato a votare. L’astensionismo, infatti, viene visto come espressione della volontà popolare di opporsi all’accordo di Prespa. La difesa della Macedonia, come spesso è stato detto in questa campagna elettorale, non è passata dal votare no, ma direttamente dal non votare.
Le ragioni di un fallimento
Al di là delle posizioni dei partiti, i motivi del fallimento sono soprattutto di natura politica e ideologica. Per i macedoni, così come per i greci, la questione del nome è una problematica molto delicata, che significa in altre parole la definizione della propria identità come popolo. La disputa sulla liceità del nome “Macedonia” è nata in concomitanza con la dichiarazione di indipendenza della Macedonia dalla Jugoslavia nel 1991. Per tutti questi anni, i macedoni hanno vissuto l’atteggiamento greco come negazionista di un’identità macedone e slava mentre gli ellenici hanno visto in quello macedone la pretesa di un popolo fittizio, senza storia e, per questo, costretto ad appropriarsene dagli altri popoli.
Negli anni passati, l’atteggiamento dei due governi ha fortemente polarizzato le posizioni, con i conservatori della VMRO-DPMNE che in Macedonia hanno dato vita al progetto “Skopje 2014”, dove il centro cittadino della capitale è stato snaturato con la costruzione di statue di personaggi storici macedoni, come i leader della rivolta contro gli ottomani nel 1903 Goce Delčev e Pitu Guli, o figure dall’identità contesa, come Alessandro Magno e Filippo II. Per la maggior parte dei macedoni, che sono sostanzialmente un popolo che, specie nelle aree rurali, è vicino a posizioni conservatrici e nazionaliste, questo accordo significava doversi piegare al più forte, la Grecia, e perdere così la propria identità.
L’avversione nei confronti dell’accordo, inoltre, è stata trasversale nel panorama politico macedone: non solo tra i partiti di destra, nazionalisti e conservatori, ma anche tra quelli di sinistra. Un esempio è Levica, formazione di estrema sinistra nata nei concitati momenti della “rivoluzione colorata” che ha avuto il merito di far terminare il regno dell’ex-premier Nikola Gruevski. Levica ha mostrato avversione verso l’accordo inizialmente da un punto di vista ideologico, non volendo entrare a far parte della NATO considerata il braccio armato dell’imperialismo. Analizzando tuttavia i loro comunicati appare latente la voglia di esternare il proprio essere macedoni, sentimento che nessun accordo può modificare. Un sentimento che è dunque trasversale e le cause del boicottaggio possono essere fatte risalire proprio a questo. Se la VMRO-DPMNE è riuscita facilmente a mobilitare i suoi sostenitori, più difficile è stato il compito di Zaev, che ha di fatto dovuto chiedere alla base del suo partito, la SDSM, di scegliere tra il partito e la propria identità nazionale.
Diversi analisti ed esperti, tra i quali l’ex mediatore europeo durante la crisi politica Peter Vanhoutte, hanno individuato tra le cause di una così bassa affluenza anche i mancati sforzi compiuti dalla commissione elettorale nel rivedere i registri degli elettori. Durante la crisi politica che ha portato alla fine del decennale governo Gruevski, difatti, i partiti politici si accordarono sulla necessità di riformare i registri elettorali ormai obsoleti, con nominativi ormai non più aventi diritto e facilmente utilizzabili per brogli elettorali, ma da allora non si è mai intervenuti. Tuttavia, seppur la mancata riforma delle liste elettorale avrebbe portato a un innalzamento della quota minima per raggiungere il quorum, si può desumere alla luce dei risultati che i dati sull’affluenza non sono stati inficiati in modo sostanziale.
La comunità albanese
La comunità albanese, che rappresenta un quarto circa della popolazione della Macedonia, ha mostrato certamente una propensione al voto favorevole e più alta rispetto ai macedoni. A fronte del 36,91% di voti ricevuti su tutto il territorio nazionale, le uniche municipalità ad aver superato il 50% degli aventi diritto sono state Aračinovo (59,56%), Lipkovo (60,94%), Saraj (68,89%) e Studeničani (51,46%), tutti comuni a maggioranza albanese. In altre città, sempre a maggioranza albanese, dove la media locale è stata più alta di quella nazionale sono Bogovinje (43,77%), Čair, uno dei dieci comuni che costituisce la capitale Skopje (45,14%), Tearce (44,06%), Tetovo (41,41%) e Želino (45,63%).
La ragione di una maggiore affluenza è stata determinata sicuramente dal supporto albanese verso l’Unione europea e gli Stati Uniti. Tuttavia, proprio per questo, si prevedeva una partecipazione degli albanesi ben più massiccia. Questo dato lascia pensare che, nonostante i passi in avanti che si sono compiuti dal 2001, anni in cui si verificarono scontri armati tra ribelli albanesi e forze di polizia macedoni, la popolazione che vive nel nord-ovest del Paese guarda ancora verso Tirana rispetto che verso Skopje, dimostrandosi non pienamente interessata alla questione del nome della Macedonia. Da registrare anche una più alta affluenza in due municipalità particolari, Plasnica (47,56%), a maggioranza turca, e Šuto Orizari (40,21%), un altro comune che fa parte di Skopje e a maggioranza rom.
E adesso?
Il primo ministro Zaev ha dichiarato di voler andare avanti e presentare la riforma in parlamento. Tuttavia, la maggioranza conta 71 membri e sono necessari ulteriori 9 voti per raggiungere i 2/3. La SDSM deve quindi cercare di convincere i membri della VMRO-DPMNE, che si è dichiarata fermamente contraria al referendum. Lo stesso leader del partito conservatore Hristijan Mickoski ha sottolineato come la sconfitta del referendum rappresenti una vittoria per i macedoni, che hanno difeso la loro dignità di popolo potendo determinare autonomamente il nome da utilizzare per definire il loro Stato. Zaev aveva promesso le sue dimissioni in caso di sconfitta, ma il forte sostegno europeo lo porta a proseguire il suo mandato. Tuttavia, se la riforma costituzionale non dovesse passare il governo potrebbe cadere e il ritorno della VMRO-DPMNE potrebbe essere vicino.