La Commissione europea ha deciso di deferire la Polonia alla Corte di giustizia europea in merito al controverso pacchetto di riforme giudiziarie promosso da Varsavia che, secondo i commissari, mette a repentaglio lo stato di diritto nel paese.
Cosa sta accadendo in Polonia? Come ha fatto il paese a diventare l’osservato speciale della Commissione europea? L’attuale governo polacco, guidato dal partito nazional-conservatore Diritto e Giustizia (PiS), ha intrapreso un duro braccio di ferro con Bruxelles. Le autorità europee si dicono infatti preoccupate delle recenti riforme politiche avviate dal PiS le quali rischiano di smantellare lo stato di diritto. Il governo polacco accusa l’UE di ingerenza mettendosi alla testa di un vasto e variegato fronte euroscettico.
L’allievo modello dell’UE
Eppure fino al 2015 il paese sembrava il più europeista del continente. La capacità dei suoi governi nel gestire e allocare efficacemente i fondi comunitari aveva garantito una crescita economica e un livello di benessere altrimenti impossibile. I polacchi sembravano ben consapevoli che senza l’UE la situazione sarebbe stata peggiore. E questa consapevolezza generava un solido consenso verso l’Unione. La Polonia era diventata un allievo modello, un esempio da seguire. Nel periodo 2007-2013, il paese ricevette finanziamenti per 80 miliardi di euro, di cui 67,3 miliardi provenienti da fondi strutturali e di coesione, e 14 miliardi da finanziamenti per l’agricoltura e la pesca, realizzando utili per 24 miliardi. Alla guida del paese c’era Piattaforma Civica, partito di centrodestra guidato da Donald Tusk, attuale presidente del Consiglio europeo. La fedeltà ai valori europei sembrava impossibile da scalfire.
Le elezioni del novembre 2015, che videro la vittoria di Diritto e Giustizia con il 37% dei consensi, hanno radicalmente mutato il quadro precedente avviando fin da subito una stagione di riforme dagli esiti incerti. Soprattutto, il governo si è mostrato ostile all’Unione usando la leva del nazionalismo come strumento di consenso. Ma come è possibile che, in pochi mesi, l’opinione pubblica polacca sia passata da posizioni favorevoli all’Unione a far proprie istanze apertamente euroscettiche?
Smantellare lo stato di diritto, in silenzio
Semplicemente non lo ha fatto. La Polonia resta, a maggioranza, un paese attento ai diritti democratici e aperto all’Europa ma – come spesso avviene – la classe politica sa manipolare disagio, paura e incertezza del futuro, usando l’Unione Europea come schermo per i propri limiti e fallimenti. La memoria corta e la propaganda fanno il resto. Così, forte del successo ottenuto, il nuovo esecutivo ha cominciato a smantellare lo stato di diritto.
Lo stato di diritto non è un lusso, un orpello di cui è possibile privarsi, un inciampo alla corretta gestione dello stato, un ostacolo alla volontà popolare. Anzi, è il risultato della lotta per limitare lo strapotere dei governi sui cittadini garantendo quella differenziazione e la diffusione del potere che, attraverso l’equilibrio tra le istituzioni, evita che l’una possa divenire predominante sulle altre. Nel caso polacco assistiamo al tentativo, da parte dell’esecutivo, di soverchiare e asservire il potere giudiziario, ovvero i giudici della corte costituzionale e la magistratura in generale.
Il modo in cui il governo polacco si è mosso è esemplare: la democrazia può essere fatta a pezzi senza clamore, senza un grido, senza che nessuno se ne accorga perché i cambiamenti riguardano, anzitutto, questioni che sfuggono all’attenzione e alle comprensione del cittadino comune, per quanto istruito possa essere. Quanti polacchi sanno come funziona e a cosa serve una corte costituzionale? Quanti hanno idea di come avvengono le nomine dei giudici? Quanti saprebbero dare una definizione di ‘stato di diritto’? Su questo vuoto di comprensione, abilmente strumentalizzato, si fonda l’operato del PiS.
Le tappe dell’infrazione
Già nel gennaio 2016 il nuovo esecutivo ricevette l’interessamento della Commissione che decise di avviare la procedura pre-articolo 7 al fine di accertare l’esistenza di minacce sistemiche allo stato di diritto. Oggetto del contendere era un pacchetto di leggi volte a modificare composizione e funzionamento della corte costituzionale, intaccandone di fatto l’indipendenza. Di fronte alle richieste e le raccomandazioni di Bruxelles, il governo polacco fece orecchie da mercante portando avanti altre iniziative lesive dei diritti civili, sessuali e della libertà di espressione. Il versante su cui l’esecutivo polacco profuse più sforzi restò quello giudiziario attraverso l’incessante adozione di leggi (secondo la Commissione europea, almeno 13 tra la fine del 2015 e il 2017) che hanno seriamente compromesso l’indipendenza dal potere politico dell’intero sistema giudiziario, colpendo prima la corte costituzionale, poi la corte suprema e infine i giudici ordinari.
La legge di riforma del funzionamento della corte costituzionale, varata il 22 luglio 2016, rappresentò il punto di non ritorno per la democrazia polacca. La legge sanciva la fine della separazione dei poteri legislativo ed esecutivo in Polonia, portando la Corte stessa sotto il controllo del governo. Non solo, secondo la nuova norma il ministro della Giustizia acquisiva il diritto di licenziare e nominare i presidenti dei tribunali – conferendogli un’indebita influenza sui procedimenti giudiziari – e scegliere parte dei membri del consiglio nazionale della magistratura, organo di autogoverno dei giudici.
In qualità di membro dell’Unione, la Polonia ha il dovere di rispettarne i trattati e spetta alla Commissione vigilare in tal senso. Ancora una volta la Commissione reagì nell’unico modo possibile, procedendo con il passo successivo in vista dell’applicazione dell’art. 7 del Trattato sull’Unione Europea, ovvero inviando un “parere motivato” a Varsavia in cui si intimava la revisione della legge. Ancora una volta il governo polacco ignorò le richieste di Bruxelles adottando invece una misura che obbligherà al pensionamento i giudici al di sopra dei 65 anni (il limite d’età a oggi è 70) consentendo al governo un repulisti della vecchia magistratura da sostituirsi con una più docile nei confronti dell’esecutivo.
“Simile al vecchio sistema sovietico”
La Commissione di Venezia, organo del Consiglio d’Europa, ha definito l’attuale assetto polacco “simile al vecchio sistema sovietico”. Un sistema contro cui l’Unione Europea ha reagito avviando l’apertura di un contenzioso con il governo polacco. Si tratta di uno dei passaggi conclusivi dell’intricata procedura d’infrazione che prelude al deferimento presso la Corte di giustizia europea. Se l’esito della vicenda resta ancora tutto da scrivere, abbiamo tuttavia certezza del fatto che il diritto europeo resta l’ultima – sottile – difesa della democrazia di fronte all’insorgere dell’autoritarismo.
Il deferimento alla Corte europea
Una sottile linea rossa che separa la democrazia dal suo contrario, unica speranza per i polacchi rimasti intrappolati nelle maglie di questo governo votato, è bene ricordarlo, dal 37% dei cittadini (tanti, ma certo non abbastanza da dire che il governo stia rappresentando l’intera “volontà del popolo polacco”).
La decisione di portare il caso polacco davanti alla Corte di giustizia europea è solo l’ultimo passo di un lungo percorso dai risvolti inediti. Nella retorica europeista, l’Unione è garante di pace e libertà. Ebbene, è ora di dimostrarlo. Per la prima volta un governo rifiuta di rispettare le regole comunitarie, che pure ha liberamente sottoscritto e di cui ha tratto indubbio vantaggio, e per la prima volta la istituzioni europee si trovano di fronte a una sfida epocale: l’esito di questa vicenda influenzerà gli anni a venire e la stessa sopravvivenza dell’Unione che, se non saprà far rispettare le proprie leggi, si svuoterà di senso aprendo la via ai nazionalismi. Sapranno Bruxelles e gli stati membri rispondere alla sfida arrivando, se necessario, alle estreme conseguenze? La questione polacca è una questione europea, ci riguarda tutti poiché quanto sta avvenendo in Polonia può accadere ovunque e condurci, senza che nemmeno ce ne accorgiamo, nel baratro dell’autoritarismo.