Questo articolo è stato originariamente pubblicato da OBC Transeuropa
Il trasformismo è un elemento frequente del leader politico. È indice di cinismo e spregiudicatezza, ma anche di flessibilità e pragmatismo che possono agevolarne il successo. Un bravo trasformista deve essere in grado di spendere bene i vantaggi accumulati nella fase precedente in un nuovo scenario, stando al passo con lo spirito del tempo.
Anche in Bosnia Erzegovina dominano la scena politica due campioni del trasformismo. Il caso più noto è quello di Milorad Dodik, leader indiscusso del nazionalismo serbo-bosniaco, ma con un passato di riformista moderato, giunto al potere grazie al sostegno convinto della comunità internazionale – che oggi lo avversa e, quando può, lo sanziona.
Negli ultimi anni è salito alla ribalta il croato-bosniaco Dragan Čović, leader dell’HDZ BiH (filiale del partito HDZ al potere a Zagabria, destra conservatrice). Nel periodo pre-guerra, Čović era stato membro della Lega dei Comunisti e nei primi anni ‘90 aveva fatto parte parte dell’UJDI, movimento pan-jugoslavo riformatore e anti-nazionalista. E’ stato persino diffuso un documento – anche se l’interessato lo ritiene falso – in cui l’allora studente Čović si era dichiarato di nazionalità jugoslava invece che croata e si firmava in cirillico.
Iscritto all’HDZ dopo la guerra e scalati rapidamente i vertici del partito, negli anni Duemila Čović si era affermato come il volto presentabile del nazionalismo croato-bosniaco, con un discorso moderato centrato sull’integrazione euroatlantica. Dal 2014, quando è stato eletto membro croato della presidenza collettiva bosniaca, la metamorfosi è stata irrefrenabile. Čović ha radicalizzato in senso identitario il proprio discorso, subordinando l’integrazione UE alla cosiddetta uguaglianza del popolo croato in Bosnia Erzegovina. Questa si potrebbe raggiungere, secondo Čović, solo rafforzando il principio etnico-territoriale delle istituzioni. Con questo tema – rilanciato generosamente dal governo di Zagabria e dagli europarlamentari croati, coinvolti in un lobbying pro-erzegovese permanente – Čović si ripresenta, da favorito, a candidato croato per la presidenza collettiva per le elezioni del prossimo 7 ottobre.
Prove di terza entità
La richiesta della “terza entità” – un’autonomia etnica croata che affiancherebbe la Federazione di BiH a prevalenza musulmana e la Republika Srpska, completando di fatto il segregazionismo identitario della Bosnia – è diventata ormai parte integrante della narrazione dell’HDZ. Ma Čović non si è limitato alle parole. Tra gesti simbolici e provvedimenti tangibili, ha realizzato prove concrete di terza entità, con tanto di capitale, confini, monumenti. Prima è arrivata l’apertura a Mostar di un proprio ufficio di rappresentanza come membro croato della presidenza – circostanza non prevista dall’ordinamento statale – con la città erzegovese presentata ormai come capitale de facto dell’entità immaginata.
Poi, il 18 maggio scorso, è avvenuto quello che alcuni giornali e politici di Sarajevo hanno chiamato il “golpe di Ivan Sedlo”. Quel giorno, un convoglio di cinque autobus organizzato dal governo bosniaco stava trasportando circa 270 migranti della rotta balcanica da Sarajevo a un centro di accoglienza presso Salakovac, in Erzegovina occidentale. Senza alcun preavviso, il convoglio è stato bloccato e tenuto fermo al confine tra il cantone di Sarajevo e quello di Mostar dalla polizia di quest’ultimo, governato dall’HDZ.
Molti hanno visto in quella vicenda, sbloccatasi dopo cinque ore di tensione e con risvolti umanitari potenzialmente drammatici, un ordine diretto di Dragan Čović. Il leader dell’HDZ BiH ha usato spesso la questione dei migranti per assecondare la linea dura del partito-madre, l’HDZ al potere in Croazia, nonché come pretesto per attaccare gli organi centrali e in particolare l’SDA, il partito bosniaco musulmano accusato di strumentalizzare il fenomeno.
La terza entità riecheggia anche nelle celebrazioni pubbliche. Lo scorso 28 agosto, Čović e le più alte autorità croato-bosniache hanno ricordato a Mostar, con una pomposa cerimonia, il venticinquesimo anniversario della cosiddetta Repubblica di Herceg Bosna, un’entità-satellite creata durante il conflitto del 1992-95. I vertici della Herceg Bosna sono stati condannati per crimini contro l’umanità dal Tribunale dell’Aja (ICTY) lo scorso novembre, ma la sentenza – mondialmente nota per il suicidio in diretta di Slobodan Praljak – ha accentuato l’orgoglio revanscista dei nazionalisti croato-bosniaci. Questo è stato ribadito in altri atti, come la recente inaugurazione di una statua di Franjo Tuđman a Tomislavgrad, e di un monumento con la sagoma unificata di Croazia e Bosnia Erzegovina che alcuni considerano irredentista.
Čović e Dodik, l’asse trasformista
L’alleanza croato-serba tra Dragan Čović e Milorad Dodik, con il comune intento di tenere in scacco le istituzioni statali, è sempre più solida. L’ultima prova è avvenuta il 4 settembre quando l’SNSD, il partito di Dodik, ha presentato al parlamento statale una mozione di sfiducia contro il ministro della Sicurezza Dragan Mektić, accusato di avere gestito male la crisi dei migranti. L’HDZ a quel punto ha appoggiato la mozione di sfiducia dell’SNSD, una mossa che appariva doppiamente illogica perché il partito di Čović è nella maggioranza di governo e perché Miro Kresić, vice di Mektić (dunque teoricamente coinvolto nella mala gestione) è un uomo dell’HDZ e un fedelissimo di Čović.
E invece una logica, tutta interna all’etnopolitica bosniaca, c’era eccome. Se la mozione fosse passata, Miro Kresić sarebbe diventato ministro. L’asse SNSD-HDZ si sarebbe impossessato di uno dei posti di potere più importanti in Bosnia Erzegovina, poiché il dicastero della sicurezza controlla la SIPA (la potente polizia statale) e tutti i dossier fondamentali su corruzione, crimine organizzato e terrorismo. La mozione-blitz è stata sventata per questioni procedurali, e Dragan Mektić (avversario di Dodik e apprezzato anche dai partiti civici) rimarrà al suo posto almeno fino alle elezioni.
Tutti si chiedono fin dove si potrà spingere l’alleanza tra i due camaleonti Čović e Dodik, ora che entrambi sono candidati – e favoriti – alla presidenza collettiva della Bosnia Erzegovina nelle elezioni del 7 ottobre. Diversi analisti e avversari politici stanno allertando sul rischio che correrebbe il paese: sarebbe la prima volta, nel già travagliato post-guerra, in cui due membri su tre della presidenza statale operano con l’aperto intento di ostacolare le istituzioni statali. Circolano persino ipotesi di autentica crisi di sistema, come quella sostenuta da alcuni politici pro-bosniaci, e rilanciata dai media di Sarajevo, secondo cui Dodik e Čović sarebbero pronti a minacciare – o rassegnare – le dimissioni pur di forzare una rottura costituzionale e paralizzare completamente l’apparato statale.
Crisi di sistema?
Paradossalmente, un freno alla completa rottura del sistema potrebbe essere rappresentato dagli interessi materiali dello stesso Dragan Čović. Il leader dell’HDZ BiH è infatti uno dei politici più ricchi del paese, una fortuna iniziata scalando i vertici della Soko, l’industria di Mostar che produceva aerei per l’aviazione militare jugoslava. Nei primi anni del post-guerra Čović, proprio quando entrava nell’HDZ, gestì la privatizzazione e lo smembramento della Soko, che oggi conta 300 lavoratori contro i circa 8.000 degli anni Ottanta.
Il tutto, secondo diverse inchieste, avvenne in modo opaco e clientelare, ma la giustizia non arrivò mai a occuparsene. Più volte indagato negli anni Duemila per altri scandali di tangenti e malversazioni, ma sempre uscito indenne, Čović possiede numerose proprietà tra Erzegovina e Croazia e vive in un sobborgo esclusivo di Mostar, in una villa di 2.000 metri quadrati del valore di circa 3 milioni di euro e per costruire la quale, secondo la stampa bosniaca, sarebbero stati rimossi ad hoc divieti edilizi della zona e persino deviato il corso del fiume Radobolja. Inoltre, va ricordato che il partito di Čović controlla molti posti chiave negli organi statali di sicurezza e giustizia. Davvero gli conviene la rottura di sistema?
La posizione di Čović non è propriamente quella di uno che vuole far saltare completamente il tavolo da gioco. Piuttosto, sembra quella di chi ha bisogno di mantenere un livello di tensione costante, che tenga a conveniente distanza non solo l’alternanza politica, ma anche la potenziale integrazione UE, che potrebbe portare a una stretta su corruzione e malversazione: è il cosiddetto effetto-Sanader, o sanaderizzazione, un concetto tanto in voga nei primi anni 2010. Sembra una vita fa. Oggi, in un’epoca di tanta incertezza e sfiducia per l’Europa e per la regione post-jugoslava, la UE sembra allontanarsi per ben altri motivi. Ma la tensione sociale potrebbe sfuggire di mano. Anche a un trasformista navigato come Dragan Čović.