È stato definito da più voci un voto storico, quello con cui, mercoledì 12 settembre, il parlamento europeo ha sancito l’attivazione dell’articolo 7 dei Trattati nei confronti dell’Ungheria. La mozione, presentata dalla deputata dei Verdi Judith Sargentini, è stata approvata con 448 voti a favore, 197 contrari e 48 astenuti. Il parlamento lancia così un importante segnale politico; sarà il Consiglio, adesso, a determinare i prossimi passi da intraprendere. Suona come una vittoria dei valori democratici europei, la tanto attesa risposta dell’UE agli eventi – ritenuti intollerabili – che hanno minato la democrazia ungherese negli ultimi anni. Tuttavia, sarebbe frettoloso parlare subito di sanzioni ed è importante capire quali sono le implicazioni di questo voto.
La mozione Sargentini
Il voto si è basato su un rapporto presentato dalla commissione parlamentare “libertà civili, giustizia e affari interni” (LIBE) e redatto da una deputata olandese dei Verdi, Judith Sargentini. A fine giugno, il rapporto è stato votato dalla maggioranza dei deputati di LIBE ed è quindi stato messo in agenda per essere votato dall’intero parlamento. La relazione mette sotto accusa il governo ungherese, reo di aver eroso – negli ultimi anni – le fondamenta democratiche del paese. Tra i capi d’accusa ci sono gli abusi nei confronti dei migranti, le restrizioni alla libertà di stampa, la corruzione e i conflitti d’interesse, l’indipendenza della magistratura ormai compromessa, gli attacchi alla Central European University e alla società civile. Sono tutti attacchi ad elementi cardine di una democrazia liberale, la quale, com’è noto, è stata gradualmente sostituita da una democrazia “illiberale” o “sovrana”.
Per questi motivi, la mozione propone al Consiglio europeo di iniziare la procedura prevista dall’articolo 7.1, per inviare una nota formale all’Ungheria e suggerire un cambio di rotta. L’articolo 7.1, formalmente, si limita a riconoscere il rischio che i valori fondamentali dell’Unione – racchiusi nell’articolo 2 dei Trattati – possano essere gravemente violati.
Alla vigilia della votazione, Sargentini ha invitato i suoi colleghi a votare a favore della mozione, per dimostrare come i valori su cui si basa l’Unione vadano difesi e non possano essere solamente scritti su carta.
L’approvazione da parte del parlamento rappresenta un primo passo importante, una presa di posizione, ma è ancora lontana dall’essere una misura definitiva.
Le intenzioni di voto
Alla vigilia del voto, diversi deputati hanno espresso le loro opinioni sulla mozione. Uno su tutti, ovviamente, il primo ministro ungherese. Chi si aspettava un passo indietro da Orbán è rimasto deluso, poiché – tutt’altro che inaspettatamente – il leader di Fidesz ha strenuamente difeso le proprie posizioni.
A detta di Orbán, l’Ungheria avrebbe un’altra idea di Europa, un’altra concezione dell’Unione, addirittura un’altra idea di cristianità. Tutto questo dovrebbe riflettersi nel motto europeo “uniti nella diversità”, ha fatto notare Orbán con implicite accuse di ipocrisia.
Con questa decisione – ha commentato il leader di Fidesz – l’Unione Europea si starebbe mettendo contro un’intera nazione, che si è sempre battuta per libertà e democrazia, anche contro l’oppressore sovietico.
“L’Ungheria non diventerà una terra di immigrazione” ha commentato Orbán, che ha concluso il suo intervento sottolineando – con una fine metafora – come questo sia “il primo caso in cui una comunità condanna le proprie guardie del corpo“.
Gli ha fatto eco il leader di Ukip, Nigel Farage, che ha esordito ringraziando Dio dell’esistenza di un leader europeo capace di difendere i propri principi, la propria nazione e la propria cultura. Farage ha puntato il dito contro l’atteggiamento della maggioranza dei parlamentari europei, che ha definito come “prepotente”. Il leader del partito scissionista inglese ha inoltre paragonato la situazione corrente con l’epoca sovietica, citando la “dottrina della sovranità limitata” concepita da Brežnev e constatando come in questa unione un paese non possa ritenersi davvero indipendente.
L’unico appunto di Farage a Orbán è la volonta di quest’ultimo di voler rimanere dentro l’Unione: “È ora di cambiare idea, si unisca al club della Brexit, lo adorerà!” lo ha esortato il parlamentare del gruppo EFD (Europa della Libertà e della Democrazia Diretta).
Di tutt’altro avviso è stato il presidente dell’ALDE, Guy Verhofstadt. Il leader dei liberali europei ha smontato la retorica di Orbán, rimproverandogli di farsi portavoce di un’intera nazione, che non può essere ridotta ai suoi governanti e che, nella realtà, “è molto più eterna del suo leader”.
Verhofstadt ha invitato i membri del partito popolare europeo (PPE) a mettere fine a un incubo che sta mettendo in pericolo l’Unione e – rivolto a Orbán – ha dichiarato che l’Ungheria attuale non avrebbe mai potuto accedervi.
Tanto rumore per nulla?
La mozione, come accennato, è passata con 448 voti favorevoli. Al di là dello storico voto del parlamento, sarebbe fuorviante dire che l’UE ha votato per introdurre sanzioni contro l’Ungheria. L’articolo 7.1 – se invocato da quattro quinti del Consiglio – prevede un ammonimento formale al paese in questione. Solamente un cartellino giallo, dunque, quello che l’Unione Europea si appresta a mostrare al paese guidato da Viktor Orbán. L’espulsione, per mantenere la metafora calcistica, rimane ben lontana. Se le raccomandazioni rimarranno inascoltate – cosa assai probabile, se si guarda al discorso di Orbán – scatterà la seconda fase, quella prevista dall’articolo 7.2, che mette in atto misure sanzionatorie come la revoca del diritto di voto. Tuttavia, l’iter in questa seconda fase è lungo e tortuoso, mentre il risultato finale potrebbe essere imprevedibile. La messa in atto delle sanzioni e la sospensione del diritto di voto al Consiglio europeo, infatti, devono essere votate all’unanimità dal Consiglio stesso. In questo frangente l’Ungheria potrebbe contare sul veto della Polonia, che si trova nella stessa situazione ed è a sua volta sostenuta dai magiari.
Con questo scenario, Orbán per ora non perde granché, ma potrà aumentare ulteriormente la sua retorica nazionalista in Ungheria e potenzialmente creare un nuovo gruppo parlamentare più a destra del partito popolare europeo (PPE). Se, al contrario, Fidesz rimarrà nel PPE, la sua posizione si farà ancora più ingombrante. Questo voto, infatti, dovrebbe costringere l’attuale gruppo di maggioranza a prendere una decisione finale sulla posizione del partito ungherese all’interno del gruppo tra le sue fila.
Il presidente del partito Manfred Weber, che punta alla presidenza della Commissione europea, aveva dichiarato di essere a favore della mozione, ma che ogni membro del partito sarebbe stato libero di scegliere. I risultati della votazione vedono 57 membri del PPE contrari alla mozione e 28 astenuti, mentre la maggioranza si è espressa a favore. Date le ambizioni di Weber, il suo voto non stupisce, ma l’argomento Fidesz rimarrà un fattore divisivo all’interno del gruppo dei popolari.
Il PPE, in passato, è stato più volte accusato di essere troppo morbido nei confronti delle posizioni di Fidesz e, negli ultimi mesi, è stata proprio la tedesca CSU (Unione cristiano-sociale in Baviera) – il partito di Weber – a essere messa sotto attacco. L’ex Commissario europeo ungherese László Andor ha accusato la CSU di aver avuto un ruolo fondamentale nel coprire le azioni del governo ungherese, di fatto lasciando che Orbán agisse quasi indisturbato. L’Ungheria ha inoltre continuato a ricevere ingenti fondi europei, i quali – vista la poca trasparenza con cui sono stati amministrati – potrebbero aver favorito Orbán e la sua cerchia.
Sono tutti errori con cui l’Unione Europea – e in particolare il PPE – deve fare i conti, benché alcuni osservatori abbiano notato come questi andassero corretti prima di attivare la cosiddetta “opzione nucleare” contro l’Ungheria.
Ora l’iter per arrivare alle sanzioni è lungo, il suo esito non è scontato, e prima ancora arriveranno le elezioni europee del 2019. Orbán potrà ancora dormire sonni tranquilli.