La morte di Aleksandr Zacharčenko, leader dell’autoproclamata Repubblica popolare di Donetsk, lo scorso 31 agosto è solo l’ultima di una serie di morti più o meno misteriose iniziate quasi subito dopo lo scoppio del conflitto in Donbass. Tra le morti di comandanti dei vari battaglioni come Mosgovoj, Givi e Motorola (solo per citare i più tristemente famosi), attentati contro personalità ‘politiche’ e fughe precipitose – non ultima quella del leader della Repubblica popolare di Lugansk – quella di Zacharčenko appare solo come una nuova tacca su una lunga lista di morti, scomparsi o fuggiti.
Ormai siamo abituati quindi, non solo alle morti ma anche alle varie speculazioni. Ogni volta che un attentato o uno pseudo-colpo di stato sconvolge la vita a Donetsk e Lugansk, assistiamo a fiumi di ipotesi sui mandanti e sulle possibili conseguenze. Qualcuno parla di pace e re-integrazione del Donbass come più vicine, altri di una possibile quanto imminente massiccia invasione da parte di Mosca. In verità – se i casi passati ci insegnano qualcosa – nulla sembra destinato a cambiare se non il gruppo al potere nella zona grigia del conflitto ucraino.
Da minatore a padrone di Donetsk
Figlio di un minatore di Donetsk, quella di Aleksandr Zacharčenko è una storia che lo accumuna con molti dei leader e dei comandanti che si sono succeduti negli oltre 4 anni di guerra. Un inizio nelle miniere, da elettricista, quasi sulle orme del padre. Dopo, una carriera poco brillante nel piccolo business: commerciante e rivenditore. A cavallo tra il 2013 e il 2014, mentre a Kiev montavano le proteste, Zacharčenko dirige la sezione di Donetsk dell’organizzazione ‘Oplot’ e partecipa all’organizzazione di manifestazioni in supporto del governo di Janukovyč, il cosiddetto anti-Maidan. La sua ascesa al potere inizia nell’ombra. Nonostante l’aura di grande combattente che si è costruito durante la sua leadership, nelle fasi più calde del conflitto rimane nell’ombra, nelle retrovie, più preoccupato di cogliere le opportunità che il conflitto poteva generare che delle armi. La strategia sembra quella vincente. Secondo numerosi report, da comandante di Oplot – nel frattempo trasformato in un vero e proprio battaglione – Zacharčenko è riuscito a mettere le mani sul business più redditizio nelle prime fasi del conflitto, la gestione di materiale (militare e non) proveniente dalla Russia. I dividendi non sono, ovviamente, solo economici. La vittoria nelle pseudo-elezioni del novembre 2014 diventa così il culmine quasi inaspettato della sua ascesa al potere.
Sul trono Zacharčenko non sale da solo. Lo affianca ben presto Aleksandr Timofeev, anch’esso coinvolto nell’attentato di qualche giorno fa, ma rimasto solo ferito. Timofeev, fondatore nel 1997 della prima tv via cavo nel Donbass (DonSatTV) e ‘Ministro delle entrate e delle tasse’ della Repubblica popolare, è considerato il personaggio più influente a Donetsk. Il fatto che l’attentato sia avvenuto proprio mentre Zacharčenko e Timofeev fossero insieme non sembra un caso.
Secondo numerose indiscrezioni, infatti, Timofeev durante gli ultimi anni è riuscito ad accumulare un’ingente ricchezza e potere, gestendo il commercio di carbone tra i territori occupati e Kiev. Si vocifera anche dei suoi possibili legami con l’oligarca Rinat Achmetov, che prima del conflitto possedeva praticamente tutti i principali centri industriali della regione. In breve, la quasi totalità del settore energetico nella Repubblica popolare di Donetsk è ora sotto il controllo proprio di Timofeev, oltre al commercio e contrabbando con l’Ucraina da una parte e la Russia dall’altra.
Non è difficile immaginare, quindi, quanto sia stata redditizia la guerra per Zacharčenko e Timofeev. Secondo alcune stime la ricchezza di quest’ultimo ammonta a 17 milioni di dollari. Non è difficile immaginare anche quanti nemici una tale sfacciata ‘fortuna’ possa creare, specialmente in una regione dove lo stato di diritto è stato, di fatto, sostituito dalla legge del più forte.
Cui prodest?
Come di consueto, la morte di Aleksandr Zacharčenko ha innescato il solito incessante scambio di accuse. A Mosca si punta il dito contro Kiev e a Kiev si accusa Mosca. Se da una parte l’attentato viene interpretato come un ‘passo indietro’ da parte del Cremlino o come l’eliminazione di un personaggio divenuto scomodo per gli interessi russi, non sappiamo e non sapremo mai come sono andate veramente le cose. La realtà, in una regione divenuta il paradiso per gli interessi di ogni genere, appare infatti più complessa o, se la si vede in un altro modo, meno intricata di quanto si possa immaginare.
Nessuna delle nette spiegazioni sembra poter abbracciare la realtà che dal 2014 caratterizza le repubbliche separatiste. E la morte del temporaneo padrone di Donetsk ha, con molta probabilità, diversi mandanti accumunati da un interesse comune, per quanto anch’esso temporaneo. Se è vero che, come affermano in molti, nulla si muove nel Donbass senza il beneplacito di Mosca, è altrettanto vero che il Cremlino non esercita un controllo diretto sui vari gruppi criminali che si muovono all’ombra della guerra. Se è vero che su alcuni punti cruciali, come il conflitto e le azioni militari, l’autonomia decisionale degli uomini in carica a Donetsk e Lugansk è pari a zero, negare che in altre materie i vari gruppi emersi durante il conflitto abbiano una certa indipendenza, equivale ad una semplificazione delle complesse trame più o meno sotterranee. Per quanto ne sappiamo, l’organizzatore può essere chiunque, ma con ogni probabilità le motivazioni vanno ricercate nella guerra sotterranea tra gruppi criminali a Donetsk, i loro intrecci con Mosca e i vari servizi segreti russi impegnati sul terreno in Donbass. Mangiare l’ultima fetta della torta che sta finendo fa gola a molti, probabilmente.
Futuro incerto, come prima
Stando così le cose, rimane difficile credere che la misteriosa morte di Zacharčenko possa avere un qualsivoglia impatto sul processo di pace e sulle future sorti della guerra in Donbass. La verità, infatti, è che il processo di pace non sta andando avanti già da tempo – anni ad essere precisi – e solo persone troppo naif possono credere che la leadership delle auto-proclamate repubbliche possa avere un qualsiasi tipo di influenza su quest’ultimo. Una volta esaurito l’obiettivo primario degli accordi di Minsk, cioè quello di fermare la carneficina nel febbraio 2015, il formato si è dimostrato subito inadeguato per una qualsivoglia soluzione politica del conflitto.
La leadership delle auto-proclamate repubbliche, in altre parole, non ha mai influito veramente sul processo di pace, anche perché Kiev continua a ritenere inammissibile ogni tipo di negoziato diretto con Donetsk e Lugansk. La soluzione del conflitto, così, rimane un affare tra Mosca e Kiev, con Berlino e Parigi che sembrano sempre meno capaci di esercitare quella pressione politica necessaria per sbloccare un conflitto che è ormai entrato nel suo quinto anno.
Che sia stato progettata a Mosca, in qualche scantinato a Donetsk o negli uffici del SBU a Kiev (l’opzione che sembra più irreale che improbabile), la morte di Zacharčenko sembra destinata a essere ricordata solo come il risultato finale di uno scontro tra gang rivali che, a ben vedere, attanagliano il Donbass a partire da quella disgraziata primavera del 2014.