a cura di Nicolò Fasola e Oleksiy Bondarenko
E’ indubbio che attirare l’attenzione pubblica fosse tra gli obiettivi di Donald Trump e Vladimir Putin nel pianificare l’incontro bilaterale di Helsinki. E’ discutibile, tuttavia, che il duo auspicasse gli esiti realizzatisi.
Entrambi i Presidenti si trovavano al centro dell’attenzione mediatica da prima del meeting finlandese. Si è parlato fin troppo della prestazione schizofrenica di Trump al Summit NATO e durante il bilaterale con May e allo stesso modo della fantomatica “dimensione geopolitica” (ormai tutto pare essere geopolitico) del mondiale di calcio organizzato dalla Russia di Putin.
Invero, i due protagonisti non hanno fatto nulla per ridimensionare le aspettative legate al bilaterale di Helsinki, facendovi leva in chiave soprattutto domestica per attrarre – o distrarre – l’opinione pubblica. Sia Trump, sia Putin, infatti, parrebbero vittime di un calo della fiducia, tanto più drastico e sorprendente nel caso del Presidente russo. In tale contesto, avere successo come “global deal maker” sarebbe stato balsamo per le sorti politiche di entrambi. Cionondimeno, la carica di agitazione politica accumulata dai due leader nelle battute precedenti si è riversata poi su un incontro, quello di Helsinki, che a ben vedere è stato del tutto insipido – con buona pace sia delle parti, sia dei commentatori entusiasti.
Vincitori, traditori e tiranni. Davvero?
Alla conclusione della conferenza stampa congiunta, fiumi di parole sono stati immediatamente profusi in merito agli sconvolgimenti che sarebbero derivati da questo “storico incontro.” La retorica dominante ha fatto propri gli slogan del “Trump traditore d’America”, del “Putin vincitore” e del Summit come “sagra dei tiranni.” Per farla breve, il bilaterale di Helsinki avrebbe dato riprova della fragilità delle istituzioni statunitensi sotto l’Amministrazione Trump, tali perché in qualche modo ostaggio di una Russia rapace che tesse la propria tela fin dentro la Casa Bianca; le parole del Presidente statunitense avrebbero lasciato intendere sconvolgenti verità sui rapporti col Cremlino, il quale d’altro canto parrebbe aver ammesso tutto quanto.
C’è persino chi si spinge fino a comparare il presunto Russian meddling nella politica interna statunitense con Pearl Harbor e il 9/11, così esplicitamente invocando la necessità di dichiarare guerra aperta a Mosca. Questa è l’opinione di Mark Hertling e Molly McKew, che evidentemente avevano estremo bisogno di cimentarsi in voli pindarici di dubbio contenuto storico-politico.
Se così stanno le cose, molto probabilmente noi e loro non abbiamo assistito alla stessa conferenza stampa.
Le questioni sul tavolo
A nostro giudizio, il summit russo-americano di Helsinki non ha svelato nulla di apocalittico: soliti temi, solita retorica, con convergenze e divergenze registrate dove prevedibile. Entrambi i presidenti hanno sciorinato una lunga lista di questioni aperte, ben note al grande pubblico, senza che questo portasse al raggiungimento di accordo alcuno. Per quanto l’élite russa paia riferirsi invero ad “accordi” presi in sede di summit, di essi non se ne ha traccia.
Palese che Trump abbia nicchiato, assediato dai cronisti, sulla questione relativa all’intromissione russa nella sfera domestica statunitense; altrettanto chiare le parole espresse da Putin a riguardo della speranza che nutrì per la vittoria del suddetto alle presidenziali 2016. Segreti di Pulcinella che paiono aver infervorato i più. Su che pianeta abbiano vissuto questi indignados fino ad oggi, non ci è dato saperlo.
Viene anche da pensare che questi ultimi agiscano con malizia, poiché di altri passaggi della conferenza stampa non c’è traccia nei loro report. Non c’è stata menzione, ad esempio, del fatto che Trump abbia definito la Russia un “competitor” – che non significa “amico”! – degli Stati Uniti, specialmente in campo energetico. Allo stesso modo, inconciliabilità di vedute è stata registrata in merito alla Crimea e, nel complesso, al dossier mediorientale.
Nemmeno s’è parlato di quello che forse è l’unico passaggio degno di nota dello scambio di battute tra i due leader – ossia il riconoscimento esplicito della Russia di Putin come interlocutore legittimo degli Stati Uniti e attore fondamentale per la gestione delle crisi internazionali. Questa sì una vittoria per Mosca.
Su Repubblica si ha invece avuto tempo di dilungarsi sull’attitudine di Trump a trattare con i soli autocrati. Simile osservazione pare assurda già notando che il bilaterale di Helsinki sia seguito ad un tour europeo tra gli Alleati. Inoltre pare logicamente ineccepibile che Washington si rechi a discutere con gli autocrati, se è laddove essi governano che i maggiori problemi globali giacciono. In fondo, questo non dovrebbe che far piacere ai sostenitori dell’ordine liberal-democratico.
Oltre a Putin e Trump, i risultati di Helsinki
I risultati del summit, così, sono stati piuttosto effimeri. Prima di tutto Russia e Stati Uniti non sono gli unici attori in causa. Spartirsi oneri e onori a livello mondiale non è solo oggi inaccettabile, ma anche praticamente impossibile. Ci si dimentica spesso, inoltre, che la politica estera è una macchina complessa che va ben oltre la figura e la personalità di Putin e Trump. Burocrazia, varie correnti di pensiero e aspetti di carattere ideologico, tra le mura della Casa Bianca così come all’interno del Cremlino, alla fine della fiera hanno un impatto spesso più decisivo della posizione del presidente.
Anche in chiave interna il risultato, per entrambe le parti, rimane piuttosto incerto. Il ritorno a casa di Trump è stato accompagnato dal polverone alzatosi sul tema dell’intervento russo nelle elezioni americane. Se l’obiettivo del Presidente americano fosse stato quello di potersi fregiare del titolo di “global deal maker” allora egli avrebbe decisamente fallito, dato il coro mediatico negativo che ha accompagnato l’evento negli Stati Uniti. Anche per la Russia, però, il risultato potrebbe essere tutt’altro che scontato.
Oltre alla retorica, infatti, proprio in questi giorni il Congresso sta dibattendo un progetto di legge che, se approvato, renderebbe praticamente automatica l’introduzione di nuove sanzioni contro la Russia nel caso di intromissione nelle elezioni del midterm, previste per il prossimo novembre. Come se non bastasse, appena qualche giorno fa due senatori repubblicani hanno presentato un altro progetto di legge volto a imporre sanzioni sulla realizzazione del progetto di gasdotto russo-tedesco Nord Stream 2. Sull’onda dello scalpore provocato dall’incontro tra Trump e Putin, entrambi i disegni di legge potrebbero essere ben presto approvati dal Congresso.
Helsinki, il simbolo dell’isteria mediatica
Il risultato più concreto del Summit, quindi, andrebbe ricercato altrove. E precisamente nell’isteria mediatica, in un mondo della comunicazione diventato sempre più frenetico, tra fiumi di tweet, post su Facebook e hashtag che hanno ormai praticamente soppiantato l’analisi. In mancanza di un’ampia riflessione sullo stato delle relazioni tra Russia e Stati Uniti, vedere tutti i mali in Putin e Trump appare molto più semplice. Una cosa alla quale ormai, nostro malgrado, siamo abituati.
Il pericolo, però, è di perdere definitivamente il contatto con la realtà e con le radici storiche, complesse e intrecciate, dell’attuale crisi (o meglio, delle molte crisi) delle relazioni in politica internazionale. Non serve qui dilungarsi su come le relazioni tra USA e Russia siano cambiate dal 1991 e su come i mattoni portanti dell’era Putin, veri o immaginari, siano da ricercare nei rinomati allargamenti delle NATO, nella pesantissima intromissione americana nelle elezioni russe del 1996 e così pure nel ritiro unilaterale da parte di Washington dal trattato ABM (trattato anti missili balistici) (2002).
Qualcuno dirà, a ragione, che si tratta di fatti selettivi e mezze verità. Vero, verissimo, ma proprio qui risiede il problema. Rigettando la narrativa russa, fondata su mezze verità, non ci facciamo problemi ad utilizzare fatti selettivi e mezze verità noi stessi. Basti guardare la schizofrenia collettiva che ha colpito i principali media americani con il presunto coinvolgimento russo nell’elezione di Trump, con piogge d’oro annesse. Basti guardare alle sceneggiate che hanno accompagnato l’esercitazione militare congiunta tra Russia e Bielorussia, dipinta da molti come il primo step per un’invasione dei paese Baltici. Basti guardare al manicheismo della bipolarizzazione della visione del mondo e del ruolo che gli Stati Uniti ricoprono in esso. La democrazia aggredita contro l’autocrazia zarista. Come se gli Stati Uniti non avessero avuto i loro Cile, El Salvador, Nicaragua e Guatemala. Come se il pantano iracheno, con annessa disputa sulla legalità dell’azione militare della “coalizione dei volenterosi”, non ci fosse mai stato. Come se le relazioni tra Stati Uniti e Russia fossero deteriorate solo per colpa del regime che si è insidiato a Mosca.
Nella marea di articoli sulla collusione “Trump-Cremlino” quante sono state le analisi che guardano appena sotto la superficie? Quanti, ad esempio, hanno cercato di riflettere – dati economici alla mano – sul come le contraddizioni della società americana siano venute al pettine con l’ascesa al potere di un personaggio improbabile come Donald Trump? Ci sono state per fortuna e ci saranno, ma non sono trendy, non finiscono in prima pagina. Sono analisi lunghe e noiose che possono sconvolgere le nostre certezze e dipingere il mondo come forse non ce lo aspettiamo.
Il problema nelle relazioni russo-americane è un problema vecchio di decenni che errori, percezioni sbagliate ed equivoci delle varie amministrazioni americane di concerto con il Cremlino, hanno contribuito ad ampliare. Anche per questo un summit insipido è potuto diventare argomento di un dibattito, in fondo, altrettanto insipido e vuoto.
Ecco, il summit di Helsinki forse dovrebbe servire a questo: a ricordarci che il mondo non è solo bianco o solo nero, che le relazioni internazionali – che ci piaccia o meno – non si regolano con le liste degli “Stati canaglia” e che, come diceva George Kennan nel suo famoso telegramma, “abbiamo migliori possibilità di realizzare le nostre speranze se il nostro pubblico è illuminato e se i nostri rapporti con i russi sono posti interamente su basi realistiche e concrete… molto dipende dalla salute e dal vigore della nostra stessa società”. Per ora, però, questa società sembra galoppare verso la schizofrenia pubblica, all’inseguimento di chimere ideologiche che i media fomentano, orgogliosi dell’opera di “banalizzazione del male” che spesso perseguono.