La rotta balcanica percorsa dai migranti nel loro viaggio verso l’Europa occidentale ha nuovamente cambiato volto. Se fino a metà 2017 i paesi più battuti erano Grecia, Macedonia e Serbia, oggi, invece, mentre la Grecia rimane come paese di primo approdo, il percorso si è spostato a ovest, attraversando l’Albania, il Montenegro e la Bosnia, con la speranza di arrivare in Croazia.
La repressione
Il motivo principale per cui le persone che percorrono la rotta balcanica si sono viste costrette a cambiare più e più volte percorsi, tempi di percorrenza e permanenza nelle zone interessate è da ritrovare nella chiusura definitiva della rotta attraverso l’Ungheria nel marzo 2016, la progressiva militarizzazione dei confini e le disposizioni degli Stati in direzione sempre più repressiva.
Paese simbolo della politica di chiusura verso i migranti è stata certamente l’Ungheria. A febbraio 2017 il primo ministro ungherese Viktor Orbàn annunciò che avrebbe messo fuorilegge ogni Organizzazione non governativa (ONG) che avesse dato supporto ai migranti provenienti dalla rotta balcanica e che avrebbe inserito il carcere preventivo per ogni migrante entrato anche legalmente in Ungheria.
Poche settimane fa è stata inoltre approvata dal parlamento ungherese la legge “Stop Soros” che prevede disposizioni durissime contro l’immigrazione irregolare, penalizzando l’aiuto verso i migranti per singoli o associazioni che volessero dare supporto materiale o logistico agli immigrati.
La nuova rotta
La parte iniziale del percorso che vede i migranti provenienti soprattutto da Afghanistan, Iraq e Siria rimane invariata. La maggior parte delle persone che provengono da questi paesi e che decidono (spesso per coercizione) di affidare il loro destino nelle mani del Mar Mediterraneo si imbarca con gommoni e natanti non idonei alla navigazione attraversando il breve ma pericolosissimo tratto di mare che separa le coste della Turchia dalle coste di Chios, Lesvos e Samos. Chi, dopo la detenzione nei campi profughi allestiti sulle isole, riesce ad arrivare sul continente e ad attraversare il confine greco-albanese, inizia il suo viaggio lungo la nuova rotta balcanica.
Stati di passaggio come l’Albania e il Montenegro sono i meno interessati agli spostamenti migratori interni e le difficoltà sopraggiungono per i paesi confinanti con stati UE, come Croazia e Ungheria, a causa della loro politica di respingimenti. In particolare difficoltà si trova oggi la Bosnia Erzegovina. La città che ora funge da appoggio per i migranti è divenuta difatti Sarajevo, dove trovano rifugio e base per gli spostamenti coloro che sono intenzionati a varcare il confine bosniaco-croato attraverso i punti di accesso non ufficiali.
In questi mesi si è sviluppata una grande concentrazione di migranti nelle località di Bihać e Velika Kladuša lungo il confine con la Croazia. Le condizioni in cui si trovano i profughi in questi piccoli centri abitati sono molto precarie. A Bihać si trovano circa 3000 persone, molte delle quali ospitate in uno studentato dismesso. A Velika Kladuša sono invece 1000 i profughi, accampati in mezzo ad un campo solo con tende e teli di fortuna.
I dati
Solamente dal primo gennaio al 31 marzo 2018 in Bosnia Erzegovina sono stati registrati 1314 nuovi arrivi. I paesi di provenienza sono Siria, Libia, Palestina, Afghanistan, Iran, Algeria e Iraq; le provenienze sono in tutto e per tutto coincidenti con la rotta battuta prima dello sgombero dei capannoni dietro la stazione di Belgrado nel maggio 2017.
Dai dati raccolti da SFA (Service for Foreigns’ Affairs) dalla fine di marzo 2018 si evince inoltre che anche le percentuali non sono cambiate dall’ultimo semestre del 2017: 30% siriani, 19% pakistani, 11 % afghani, 9% libici e 8% palestinesi. Un dato che rischia di passare inosservato è la sporadica presenza di nazionalità estranee alla normale ripartizione a causa della quasi insignificante presenza sui territori; ovvero la presenza di migranti provenienti dal Sud America e dalla Cina.
L’azione dei volontari
Come avvenne per i giorni dell’emergenza serba, una fitta rete di volontari si sta coordinando con la Croce Rossa bosniaca per portare aiuti e servizi di prima necessità a Bihać. Capofila del volontariato italiano è l’associazione veronese One Bridge to Idomeni che, forte dell’esperienza accumulata durante l’apertura della prima rotta balcanica, porta settimanalmente aiuti e volontari per supportare le organizzazioni locali in territorio bosniaco. “Il progetto dell’associazione – ci spiega Serena Rubinelli, coordinatrice delle missioni in Bosnia – consiste nel portare una risposta concreta alla disumana situazione di emergenza creatasi nel nord della Bosnia e, allo stesso tempo, nel tutelare i diritti che vengono costantemente negati ai migranti”.
La presenza di famiglie con minori rende ancora più importante la creazione di politiche di supporto e gestione in tempi molto brevi, impedendo così che si riproponga una nuova emergenza umanitaria a neppure due anni di distanza da quella che si sviluppò in Serbia.
Il cambio di percorso attraverso il territorio dei Balcani è la dimostrazione che la chiusura e la militarizzazione dei confini unita a leggi repressive (in netto conflitto con le direttive europee) a nulla serve, tranne che a rallentare un fenomeno strutturale come quello della migrazione lungo la rotta balcanica.
Foto di Nicola Fornaciari, Belgrado 2017
Cioè in pratica Ipsia Acli, l’ong italiana presente a Bihac dal 1997, da maggio presente nei campi con le sue operatrici tutti i giorni e che vi hanno portato in giro e che aiutano chi passa da lì a muoversi trovare i contatti etc non viene nemmeno citata?
Complimenti all’autore, pensate di fare una revisione del testo o vi limitate a dare informazioni parziali?
Mi immagino che anche One bridge che accogliamo tutti i weekend possa dare una sua opinione a riguardo del nostro lavoro.