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Le truppe sovietiche, giunte in Cecoslovacchia in giugno con tanta premura e in largo anticipo sulla data prevista per le esercitazioni da tempo concordate, tardavano in maniera irritante a lasciare le loro postazioni. Nessuna minaccia aperta, solo un sottile senso di insicurezza che Mosca intendeva diffondere a Praga. A metà luglio una telefonata anonima alla polizia denunciò la presenza di un nascondiglio sotto il cavalcavia di un’autostrada, dove furono trovati venti mitra americani e le relative munizioni. La stampa sovietica e quella della Germania orientale non tardarono a lanciare una campagna allarmistica sulle manovre statunitensi «per armare la controrivoluzione cecoslovacca». Durante le indagini si scoprì che il grasso usato per lubrificare i mitra era di origine sovietica, come rivelò a Dubček il ministro degli Interni Pavel, e che probabilmente si trattava di materiale bellico introdotto nel paese da agenti sovietici per scatenare il panico, ma anche per giustificare, a posteriori, eventuali interventi.
Alle insofferenze e alle minacce contro il Programma d’azione, sia estere sia interne, si alternavano però altrettante e ben più visibili attestazioni di vicinanza.
Il Primo segretario riceveva quotidianamente lettere di adesione alla sua politica e di stima personale provenienti dalle realtà più disparate: associazioni di veterani, redazioni, sindacati, fabbriche, reparti militari. Il 26 luglio su «Literární listy», in edizione straordinaria, comparve un documento di solidarietà al Comitato centrale, redatto dallo scrittore Pavel Kohout e sottoscritto da centinaia di artisti, registi, studenti, scrittori, medici, compositori, architetti. Contemporaneamente alla pubblicazione, in diversi punti di Praga, si formarono code di migliaia di cittadini desiderosi di apporre la propria firma al messaggio e di certificare così la propria solidarietà. Il testo diverrà noto come “messaggio delle quattro esse” per le richieste contenute: Socialismus, Spojenectví (Alleanza), Suverenita (Sovranità) e Svoboda (Libertà).
L’entusiasmo si mescolava a una tensione costante, che si dipanava nell’ansia di un imminente attacco sovietico. Il 22 luglio giunse alla redazione di «Literární listy» l’affannosa telefonata di qualcuno che, in assoluta buona fede, annunciava terrorizzato l’avanzata delle truppe sovietiche verso la cittadina di Cheb; decine di lettere dello stesso tenore giunsero alle redazioni dei giornali in quelle giornate d’estate. Non si trattava solamente di una diffusa allucinazione collettiva, ma della comprensibile paura di un pericolo reale, che non mancherà di concretizzarsi di lì a breve.
Intanto Dubček ricevette l’ennesimo sollecito da Brežnev per un incontro bilaterale. Ancora scosso per le accuse contenute nella Lettera da Varsavia, decise di accettare a patto che si trovassero in territorio cecoslovacco, proponendo la città di Košice nella Slovacchia orientale, vicino al confine. Due giorni dopo arrivò la controproposta di Mosca: i colloqui si sarebbero tenuti a Čierna nad Tisou, alla frontiera fra i due paesi, una piccolissima località dove i binari dei treni erano a scartamento largo come quelli sovietici. Dubček replicò che si trattava di una sede inadatta, priva di alloggi e luoghi di incontro adeguati, ma Brežnev assicurò che si sarebbero arrangiati.
Ne scaturì una situazione paradossale, che avrebbe reso felice qualsiasi sceneggiatore cinematografico amante del surrealismo. I colloqui, che si tennero nel club dei ferrovieri presso la stazione, si aprirono il 29 luglio e durarono alcuni giorni. I sovietici arrivavano in treno la mattina e ripartivano la sera. I lavori non conducevano a nessun passo in avanti né per gli uni né per gli altri, ma la sera, quando i sovietici se ne andavano, i ferrovieri esprimevano il proprio entusiastico sostegno al Primo segretario cecoslovacco. L’ultimo giorno Brežnev si finse malato, Dubček lo trovò in pigiama nel suo vagone: voleva quanto prima un incontro con gli altri quattro paesi del Patto di Varsavia. Dubček accettò di incontrarli il 3 agosto a Bratislava, non richiese la presenza di Jugoslavia e Romania, a patto che non si ripetessero gli attacchi frontali di Varsavia. Brežnev rispose con un laconico: «Penso che possiamo farlo».
Quando giunsero a Bratislava i convenuti trovarono una bozza di comunicato congiunto già preparata dai sovietici, in quel linguaggio burocratico e stereotipato che i russi chiamavano sarcasticamente “lingua di legno”. Fortunatamente venne sostituita da una seconda versione, in cui mancavano del tutto i riferimenti alla condanna di Varsavia. Dubček chiese che si aggiungesse una frase sull’autonomia dell’evoluzione interna dei singoli paesi. La proposta fu oggetto di accese discussioni e alla fine si convenne su due passi di una certa rilevanza: in uno si affermava che ogni partito comunista «risolve in maniera creativa i problemi dell’ulteriore sviluppo del socialismo» e nell’altro si ribadivano i principi «dell’eguaglianza, del rispetto della sovranità, dell’indipendenza statale e dell’intangibilità territoriale». Una terza frase avrebbe, invece, consentito ai propagandisti sovietici di legittimare l’invasione di agosto, ma si trattava di sottigliezze linguistiche, non di asserzioni perentorie: «l’appoggio, la difesa e il consolidamento (delle conquiste degli Stati del blocco) sono un dovere internazionalista».
In apparenza, a Bratislava la Cecoslovacchia riportò una netta vittoria e questo le concesse ancora due settimane di relativa serenità. Certo, allora nessuno poteva immaginare che il 18 agosto, quando i Cinque decisero l’invasione, il documento sottoscritto a inizio del mese sarebbe stato manomesso, aggiungendo tre passi in cui il Partito cecoslovacco dichiarava che avrebbe reintrodotto la censura, messo fuori legge le associazioni e mutato alcune cariche istituzionali.
Il 9 giunse in visita a Praga Tito, accolto da un’immensa folla festante, che dichiarò la sua totale adesione alla politica di Praga; sei giorni dopo arrivò Ceauşescu, sicuramente non un riformatore né uno spirito democratico, ma la sua vicinanza ebbe un peso maggiore, in quanto la Romania era membro del Patto di Varsavia.
Dubček, che nonostante il periodo estivo, continuò a lavorare assiduamente, in particolare alla preparazione del Congresso, si ritagliò pochissimi momenti di svago. In un giorno di giugno si recò in una piscina pubblica, dove fu attorniato da giovani, adulti e bambini che volevano parlagli, ascoltarlo, avere un suo autografo.
Uomo sportivo da sempre, si concesse un bagno, ma soprattutto un tuffo spettacolare, degno di un ventenne, che alcuni scatti fotografici si affrettarono a immortalare. Quello che si mostrò in quei caldi giorni d’estate come un glorioso balzo nel futuro, avrebbe a breve rivelato l’altra sua effigie, il negativo di un’istantanea di gioia, palesandosi come un drammatico lancio nel vuoto.