Ryukyu, Cascadia, Franconia, Sahara occidentale. E ancora Kurdistan, Transnistria e Ossezia del Sud. Molti dei loro nomi vi suoneranno del tutto nuovi e sconosciuti e se proverete a cercarle su un atlante geografico probabilmente non riuscirete nemmeno a individuarle. Sono delle “non-nazioni” o, meglio, nazioni non ufficialmente riconosciute, che ogni due anni – a partire dal 2014 – si sfidano su un campo di calcio, dando vita a un torneo internazionale che strizza l’occhio ai mondiali organizzati dalla Fifa.
I mondiali organizzati dalla ConIfa (Confederation of Independent Football Associations; in italiano Confederazione delle nazioni non riconosciute), giunti già alla terza edizione, sono aperti a gruppi, minoranze e comunità culturali esclusi dal sistema Fifa, perché privi di sovranità nazionale. Aderiscono a ConIfa 47 non-nazioni di tutto il pianeta. In Europa, solo per fare qualche esempio, troviamo le rappresentative di Padania (seconda nel ranking ConIfa), Abkhazia, Repubblica popolare di Donetsk, Monaco e Nagorno Karabakh. In Asia, di Panjab, Tibet e Rohingya; per l’Africa Darfur, Somaliland e Zanzibar; mentre arrivano dall’Oceania Kiribati e Tuvalu.
I Mondiali di ConIfa 2018
Ad aggiudicarsi quest’anno il titolo è stata la Karpatalya, squadra di calcio che rappresenta la minoranza ungherese – circa 157 mila persone – che vive nel nord-ovest dell’Ucraina (si tratta della quinta minoranza del Paese), dopo una sfida vinta ai rigori contro la Repubblica di Cipro del Nord. Risultato finale: 3 a 2, dopo che i tempi regolari del match si erano chiusi sullo 0 a 0 davanti a centinaia di spettatori.
Terza classificata, la Padania che si è imposta sullo Székely Land – squadra che rappresenta una minoranza ungherese nell’est della Transilvania, in Romania – per 5 a 4 ai rigori.
Lo sport veicolo di aspirazioni nazionali
I mondiali alternativi di ConIfa non sono soltanto un affare per appassionati calciofili. Per le nazioni non riconosciute che vi partecipano rappresentano anche un’occasione per rivendicare la propria identità e appartenenza, tutte insieme, unite sotto un unico vessillo, quello dello sport. È un modo per affermare la propria indipendenza e l’aspirazione ad essere riconosciute come nazioni dalla comunità internazionale.
«Vogliamo trasmettere l’idea che le identità delle persone sono importanti e che non è necessario inserirle all’interno di caselle preconfezionate dalla politica internazionale», ha dichiarato Paul Watson, a capo del comitato organizzatore del torneo. «La nostra visione flessibile dell’identità è forse più adatta al mondo di oggi rispetto a quella esistente e comunemente accettata».
Rivendicazioni e ambizioni pagate spesso a caro prezzo dai partecipanti, con la loro stessa libertà. Il team manager della Kabylia, Aksel Bellabbaci, ha raccontato di essere stato arrestato più volte dalla polizia di stato in Algeria mentre ultimava i preparativi per il torneo. I giocatori sono stati avvertiti dalle autorità che avrebbero avuto ripercussioni una volta rientrati in patria. «La polizia non vuole che i kabyliani si mettano in mostra», ha detto Bellabbaci.
Foto: conifa.org