Ayvalık e Mytilini (Mitilene) sono due città di piccole dimensioni (circa 30.000 abitanti), posizionate rispettivamente sulla costa turca e greca del Mar Egeo settentrionale, a una distanza di 26 chilometri una dall’altra. La prima, situata nella provincia di Balıkesir, ed il cui nome turco (succeduto a quello storico greco di Kydonies-Κυδωνίες) designa il frutto della mela cotogna, è un’importante città commerciale e si affaccia sull’isola di Lesbo di cui Mytilini è capitale. Quest’ultima è una località di eccezionale valore storico, importante centro culturale e universitario oltre che porto commerciale e turistico, divenuta famosa al mondo intero assieme all’isola con l’acutizzarsi della crisi dei rifugiati a partire dall’estate 2015. Questa parte del Mar Egeo settentrionale rappresenta un topos sociale e geografico fatto di confini visibili e invisibili, dove la storia europea ha concentrato alcune delle tragedie più significative dell’ultimo secolo.
Le due città condividono un passato comune caratterizzato dalla coesistenza di culture, lingue e confessioni religiose, essendo state entrambe parte del multietnico impero ottomano, la cui fine ha provocato spostamenti forzati e migrazioni da e verso entrambe le città. Fino alle guerre balcaniche, Ayvalık era principalmente popolata da greci, abitanti della zona fin dall’antichità, che trovavano in tale centro urbano uno dei loro più importanti punti di riferimento culturali. Mytilini era a sua volta abitata da una consistente comunità turca e musulmana.
Lo scambio di popolazioni del 1922/1923 e la sorte del patrimonio architettonico
La memoria traumatica dello scambio di popolazioni seguito alla guerra greco-turca 1919/1922 (in greco definita come “la grande catastrofe dell’Asia Minore”) nonché al grande fuoco di Smirne del settembre 1922 è ancora presente nelle narrazioni degli abitanti di entrambe le rive. Non vi è abitante che non abbia una storia familiare da raccontare, di sradicamento dei propri nonni o antenati dalle sponde opposte di quel mare, in ciò che appare come una ferita aperta, tramandata di generazione in generazione. In un certo senso, ogni lato vede nell’altro il frammento mancante di se stesso, della propria storia interrotta. Nell’isola di Lesbo, a Skala Loutron, un paesino distante 8 km da Mytilini, trova luogo un interessante spazio memoriale dedicato a tale tema, chiamato il Museo dei rifugiati dell’Asia Minore del 1922. Sono qui raccolti vari oggetti che le persone in fuga dalle proprie terre portarono con sé, tra cui icone, documenti storici ufficiali, indumenti folklorici, assieme a mappe che testimoniano la lunga storia delle presenza greca in Asia Minore.
Nel corso del tempo, le varie chiese greche ortodosse di Ayvalık sono state riconvertite in moschee, e le vecchie case “rum” (definizione ottomana per l’appartenenza confessionale cristiano-ortodossa nell’impero) sono state ripopolate con i rifugiati musulmani provenienti dall’isola di Lesbo e da Creta. A Mytilini rimane una sola moschea, la Yeni Cami, che è stata lasciata in rovina per decenni assieme a buona parte del patrimonio architettonico ed artistico ottomano dell’isola fino a quando nel 2011 le autorità municipali hanno iniziato a riprendersene cura.
La memoria dello sradicamento nelle opere culturali ed umane
I ricordi del trauma da sradicamento si sono rispecchiati in un’opera letteraria principale, il celebre romanzo “La Madonna Sirena” (H Παναγιά η Γοργόνα), dello scrittore greco Stratis Myrivilis (1948), ambientato a Skala Sykamnia, suo villaggio natale. Il libro tratta le vicende dei profughi greci dell’Asia Minore giunti in questo paesino a una cinquantina di chilometri da Mytilene nel 1922 dalla sponda opposta del mare. A distanza di quasi un secolo, le questioni di migrazione forzata appaiono in questi luoghi più che attuali a causa dell’impatto della crisi dei rifugiati negli ultimi anni. I migranti che giungono a Lesbo partono infatti proprio dalla costa turca, ed è proprio a Skala Sykamnia che il pescatore Stratos Valiamos ha salvato decine di persone dal mare trascorrendo intere notti sulla sua barca nel corso degli ultimi anni. Per il suo contributo al salvataggio di vite umane, Valiamos è stato nominato al Premio Nobel per la Pace nel 2016. Nel 2015, è stata pubblicata l’opera a fumetti del celebre autore greco Soloup dal titolo “Ayvali, una storia tra Grecia e Turchia”, che indaga sulla parte ancora irrisolta e dolorosa della memoria comune di queste due città attraverso degli scorci intensi su alcuni momenti cruciali del suo ultimo secolo.
Contatti interculturali fra turchi e greci delle due città
Le crescenti pratiche di turismo portate avanti da cittadini di entrambe le sponde rappresentano una risposta attiva e creativa alle sfide poste dalla storia ed in un certo senso contribuiscono a mettere in questione l’idea stessa di confine in questa parte dell’Egeo settentrionale. Un servizio giornaliero di traghetto collega le due città, e viene utilizzato soprattutto dai greci che una volta a settimana si recano in massa al mercato del giovedì di Ayvalık, uno dei più grandi dell’intera regione. Vista la crisi in Grecia e la svalutazione sempre più acuta della lira turca, molti abitanti di Mytilini trovano molto più conveniente andare a fare compere sulla sponda opposta del mare. L’Ayvalık Perşembe Pazarı costituisce un elemento vitale dell’economia di Ayvalık, dove quasi tutti i venditori masticano un po’ di greco, e riescono così a comunicare più efficacemente con i potenziali clienti.
A sua volta, Mytilini è divenuta una meta ambita da un numero crescente di turisti turchi, provenienti per lo più dalla classe media laica della costa egea dove l’AKP non riesce a trionfare, nonché da un numero significativo di intellettuali che cercano in Mytilini una “boccata d’aria fresca”. Durante le serate di musica dal vivo, nei ristoranti della città le melodie tradizionali delle canzoni greche si alternano a quelle turche, ben più malinconiche e struggenti. Ed è qui che sembra talvolta ristabilirsi una sorta di corrispondenza, un incontro fra le emotività di questi due popoli che normalmente riescono solo a fatica a comunicare. Grazie a tale illusione da sconfinamento, i dolorosi nodi irrisolti sembrano allentarsi momentaneamente, e l’immaginario di un mare Egeo comune continua ad essere tessuto su entrambe le sponde di questo denso spazio post-ottomano.